di Mattia Vallieri
Nelle leggi razziali di 80 anni fa Benito Mussolini ci credeva davvero o le promulgò per convenienza politica e vicinanza a Hitler? Era razzista o un opportunista? “Mussolini è un uomo estremamente pragmatico, fa quello che conviene a lui e all’idea di Italia che ha. In questo senso non ha quella folle ideologia e pregiudizio di Adolf Hitler ma utilizza tutto quello che gli serve in quel dato momento. E’ razzista sin dall’inizio ma non lo dice, non lo fa trapelare, non fa come Attilio Fontana”.
È questa la convinzione, coadiuvata da diversi episodi e documenti, dello storico Michele Sarfatti arrivato al Meis (di cui è membro del comitato scientifico) per presentare il suo libro ‘Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle legge razziali’, uscito nel 1994 ma oggi arricchito da nuove testimonianze raccolte dall’autore.
Dopo i saluti della direttrice del Meis Simonetta Della Seta (che ha moderato l’incontro) e del presidente Dario Disegna (“libro importante in questo ottantesimo anniversario delle leggi razziali perché il paese faccia i conti con il proprio passato”), la parola passa all’autore che sottolinea come, storicamente, “Hitler fa una politica di conquista e ripopolamento dell’Europa ad oriente della Germania”, mentre “Mussolini vuole un mare nostrum da controllare ben cosciente che ci sono gli albanesi, i libici, i tunisini e gli egiziani e deve riuscire a farli stare insieme tutti. Quando esce il manifesto della razza nel luglio del 1938, che è di Mussolini non degli scienziati, il ministro degli Esteri Ciano 10 giorni dopo, ed è evidente che si sono sentiti, manda un telex ad ambasciatori e consoli italiani chiarendo che le politiche razziste italiane riguardano solo gli ebrei”. Secondo Sarfatti “il razzismo Mussolini l’ha preso con il latte dalla madre cattolica e maestra elementare e dal padre anarchico. Nel Psi è stato un altissimo dirigente e si scontra costantemente con Claudio Treves, c’è un qualcosa nel feeling tra quei due che non funziona. Parte ad esplicitare il suo razzismo con gli etiopi nel 1936”.
Non mancano i racconti storici all’interno della presentazione, partendo proprio dalla questione Etiopia: “A Longobucco, vicino a Cosenza, venne deportata ed internata l’elite intellettuale etiope. Il 24 giugno del 1938 arriva sul tavolo di Mussolini una lettera del prefetto di Cosenza che diceva che nei locali dove sono non hanno modo di cucinare e se possono andare a mangiare fuori. Sulla questione c’è una annotazione di un ministro dell’Africa italiana con scritto ‘il duce ha detto sì purché non siano serviti da bianchi’. Questo è razzismo che hai dentro, è il prototipo del razzismo”.
“Io non credo alla svolta del ’38, lui vuole rivoluzionare un paese che già esiste” prosegue lo storico, affrontando la questione della nascita dell’Accademia d’Italia (in cui “non vengono mai insigniti ebrei”), ribadendo che leggi razziali furono “una azione di governo” e ricordando come “nel ’33 ci sono dei strampalati ma seri e reali incontri tra Mussolini e Renzetti (il rappresentante del duce a Berlino). Mussolini tramite Renzetti chiede ad Hitler di non esporsi così contro gli ebrei perché le cose si possono fare anche senza clamore e senza richiamare l’attenzione della comunità internazionale. A queste parole Hitler, che era appena arrivato al potere, rispose picche”.
“Le sanzioni della Società delle Nazioni ed il fatto di non riuscire a fascistizzare il mondo ebraico italiano sono due cose che Mussolini non riesce a tollerare” chiosa ancora Sarfatti, dichiarando che “tra i suoi c’era chi premeva per andare più avanti, tra cui Renacci e Interlandi, e chi lo prendeva per l’ultimo lembo della giacca, per stare a Ferrara Balbo, ma il gruppo dirigente era una consorteria dove tutti si mettevano assieme. Non abbiamo nessuna traccia di dirigente del partito fascista che si sia allontanato, non c’è qualcuno che in modo tenue si è fatto progressivamente da parte a seguito delle leggi razziali. C’è un consenso generale verso Mussolini”.
Sempre per rimanere su Ferrara, rispondendo ad una osservazione su Balbo, Sarfatti si domanda a gran voce “cosa diavolo è successo in questa città al momento del assassinio di don Minzoni? Lì si crea qualcosa che è talmente forte da durare alcuni lustri. Perché una persona non iscritta al Pnf diventa immediatamente segretario federale per qualche mese? Quale è il fatto e cosa è accaduto in questa città? Manca la storia di Ferrara del primo periodo fascista ma studiare queste cose in un paese che le nega è difficile”. E ancora: “Come è stato coperto l’affaire don Minzoni? – chiede lo scrittore -. Nella frase di Balbo ‘Tripoli non è Tel Aviv’ lui ha in mente un concetto e delle cose molto forti. Avrà avuto metodi gentili ma la storia è altro”.
“Nella misura in cui ci definiamo italiani ci prendiamo sulle spalle tutto quello che è accaduto in nome di altri italiani e dobbiamo conoscerlo perché fa parte di noi” spiega l’autore, concludendo che “siamo quello che è successo e saremo quello che riusciremo a fare. Se dici di essere italiano sappi che l’Italia è Galileo, Leonardo, sant’Ambrogio a Milano (che era per la distruzione delle sinagoghe) e ivi compreso le leggi anti ebraiche”.
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