Terre del Reno
3 Gennaio 2018
Il sindaco di Terre del Reno: "Se intervenisse il Comune andrebbe in default. La proprietà ha chiesto un incontro: non vedo l'ora di riceverli"

Un’ex fonderia inquina il paese da 20 anni. Ma forse c’è una riqualificazione in vista

di Redazione | 7 min

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di Martin Miraglia

Sant’Agostino. A pochi metri in linea d’aria dal centro di Sant’Agostino, nascosta solo dall’urbanizzazione del paese che da inizio anno, dopo la fusione con Mirabello, si chiama Terre del Reno, i resti di una fonderia la cui attività è cessata da alcuni decenni si ergono ancora mastodontici sulle sponde del Canale Emiliano-Romagnolo.

Ci si arriva separandosi da via Mazzini a piedi, camminando su strade ghiaiate e sentieri battuti dal calpestio dei tanti che usano la riva del fiume come luogo delle loro passeggiate, spesso con i cani al seguito. L’area ex Ferriani però è “un’area a rischio ambientale” a causa delle sue peculiarità sin dalla sua chiusura, nel 1999, almeno secondo alcuni dei cittadini che si battono per la sua bonifica totale.

Costruito nel 1895, il complesso servì in prima battuta per la costruzione di macchine agricole, poi dalla fine degli anni ’70 fino alla sua chiusura diventò una fonderia dopo la divisione della società, che entrò per alcuni periodi anche nel settore saccarifero, in due sedi diverse. Le datazioni danno un’idea di cos’abbia contenuto e contenga ancora l’area, ancora privata poiché nessuno ha mai manifestato un serio nella sua bonifica visti i costi collegati alla sua estensione, recintata con reti da cantiere solo per metà del suo perimetro.

La ditta Ferriani, dopo aver costituito la principale ossatura dell’impiego privato di Sant’Agostino per un secolo intero, arrivando ad occupare fino a duecento persone, nel settore meccanico e della fusione dei metalli, chiude nel 1985 poco dopo la morte dell’ultimo titolare di famiglia, Franco Ferriani. Lo stabilimento di via del Fantino, dove ebbe sede lo stabilimento delle lavorazioni meccaniche, abbassa le serrande e poi viene venduto ad un’altra impresa.

Stessa sorte tocca anche allo stabilimento di via Mazzini, che passa di mano varie volte fino a venire rilevato dalla GFS — acronimo di Gruppo Fusioni Stampati — che però segue la stessa sorte della Ferriani e nel 1999 fallisce anch’esso. Inevitabile la nomina del commissario liquidatore quindi, che tenta di vendere invano la proprietà finché nei primi anni duemila propone di costruire un ‘museo della fonderia’. Non se ne farà niente e la struttura rimarrà abbandonata.

All’interno dei capannoni infatti si trovano ancora bidoni sigillati, e contenitori vari di liquami diversi per i quali non sembra esistere nemmeno un censimento. “C’è stato per anni anche dell’amianto”, dice Salvatore Righi, uno degli abitanti che fa da cicerone nel viaggio nella struttura, “ma dopo il terremoto una parte della struttura era crollata e quella parte è stata bonificata, e al momento non sappiamo se ce ne sia ancora o no”.

Almeno su questo punto però, Righi si sbaglia nonostante da anni siano rimasti appesi i cartelli di pericolo per la presenza del materiale cancerogeno: a seguito delle scosse la Regione emise ordinanze di rimozione dell’amianto a novembre del 2013 — assegnando al Comune 148mila euro —, e nel luglio del 2014 — per altri 23mila euro — “premesso che il Comune di Sant’Agostino ha comunicato con lettera che durante i lavori sono stati rinvenuti ulteriori frammenti di lastre contenti amianto, non preventivamente rilevati in quanto occultati dai cumuli di macerie e dalla rigogliosa vegetazione presente”, finché alla fine degli interventi sono seguite dichiarazioni sulla missione compiuta che rimarcavano la sua importanza.

Lo stesso sindaco Roberto Lodi a novembre 2012 poi, durante una riunione di giunta le cui trascrizioni sono conservate agli atti, spiegò ai colleghi rivestendo all’epoca il ruolo di vicesindaco che “dal punto di vista dell’amianto la situazione è già stata quasi completamente risolta con gli interventi precedenti”. E in questi giorni conferma la smentita: “La bonifica dall’amianto è stata completata”, spiega.

Entrare nei capannoni è un gioco da ragazzi — e Righi esplicita il suo timore che la frase fatta possa tramutarsi in realtà —: il versante che dà su una strada privata a ridosso di un complesso condominiale è chiuso con un reticolato arrugginito, per quello che dà sul canale non c’è niente di tutto questo e basta scavalcare un fosso con un passo lungo. Che non si sia stati i soli ad averlo attraversato è confermato subito: l’atmosfera spettrale fatta di capannoni in cemento armato ancora in piedi e altri smantellati dei quali rimangono solamente le nervature si compone di scritte sui muri, rifiuti vari – c’è anche una vecchia televisione a tubo catodico – e vetri rotti. Di una visita c’è anche una data, risalente al 7 dicembre 2016, lasciata a perpetuo ricordo da un writer che si firma come ‘dead’, morto, con una bomboletta.

Il primo incontro lo si ha con alcune taniche quadrate infilate dentro a grate di metallo arrugginito fuori dal perimetro di pochi metri, entrando in quello che ormai sembra più un rudere che un testamento alla mutevolezza del mercato si viene accolti da pezzi di intonaco e mattoni rotti, taniche di olii esausti piene, barili inamovibili, guano e copertoni nelle luci ed ombre che lo stabile ha al suo interno. Nelle aree più soleggiate fa capolino anche qualche accenno di vegetazione rampicante tra i cartelli recanti le disposizioni di sicurezza di vent’anni fa e i quadri elettrici abbandonati insieme ad alcune macchine agricole.

“Sono rifiuti pericolosi, per i quali incorrerei in sanzioni pesanti se li abbandonassi io”, continua a questo punto Righi. E poi, soprattutto, ricorre la questione delle vasche di raffreddamento durante gli anni di attività della fonderia: “Siamo a pochi metri da un canale usato per l’irrigazione, e non sappiamo se ci sia stata una contaminazione o meno, non esiste un censimento”.

E su questo ha ragione: indirettamente lo conferma anche il sindaco a seguito di una domanda diretta: “Il problema”, spiega, “ora riguarda il terreno: non è mai stata fatta una caratterizzazione del terreno e non sappiamo se ci siano inquinanti o meno, non abbiamo una risposta”, dice. Non perché non si sia voluta o non si vorrebbe fare, ma per una questione di costi: “L’area è enorme, e solo per l’amianto sono servite centinaia di migliaia di euro, se l’intervento dovessimo farlo noi andremmo in default, non abbiamo le forze finanziarie”, aggiunge, spiegando che per questo da sempre si è cercato un incentivo da offrire a qualche privato per prendersi carico di quel fazzoletto di terra.

L’edificio che conteneva gli uffici è invece inaccessibile senza tentare qualche effrazione, ma ancora porta ai campanelli il nome dell’ultimo direttore. Dalle finestre rotte si notano raccoglitori stracolmi di documenti, qualcuno con la complicità della notte ha disegnato una svastica su un muro divisorio anni dopo che i dipendenti dell’ultimo hanno scritto sulla lavagna all’ingresso ‘Ciao, la fabbrica è momentaneamente indisponibile’. A frequentare la zona però non sono solo ragazzini dalla parte sbagliata della storia e artisti di strada in cerca d’espressioni nascoste. All’interno della ‘hall’ degli uffici, dietro una porta chiusa a chiave, si trova una rotoballa di fieno, in un’altra area coperta altro fieno è stato infilato in sacchi all’origine contenenti urea. Fanno capolino anche una bicicletta in uno stato tutto sommato buono se si esclude l’assenza del copertone posteriore e un cambio d’indumenti oltre ad altri oggetti dentro buste infilati nei contenitori di legno per il trasporto della frutta depositati da non troppo tempo.

Negli anni, la questione della riqualificazione dell’area è ritornata agli onori delle cronache puntuale prima o dopo ogni campagna elettorale: promossa da chi poteva contare più sui buoni propositi che sui voti, rimossa dai contendenti alla vittoria. Ne continuano a conseguire a intervalli regolari battaglie di inchiostro, esposti, denunce al nucleo ambientale dei carabinieri depositate nel corso del tempo e richieste di verifiche a vari enti pubblici per verificare la presenza o meno di inquinanti nell’aria e nelle acque prossime all’ex fonderia.

Poco però è successo in decenni, se si considera che solo per la bonifica dall’amianto sono serviti 13 anni, un disastro naturale e fondi di altri enti con le spalle più larghe. A parziale discolpa degli amministratori – oltre al problema dei costi – resta il fatto che la proprietà rimane privata, ancora in mano al curatore fallimentare di GFS, e che quindi gli enti locali nulla possono senza ricorrere ad ordinanze di contingenza, e che avendo a che fare con una società di capitali fallita ogni intimazione per ottemperare alla quale serve una spesa semplicemente non ottiene risposta.

Da allora, a Sant’Agostino sono successe molte cose: un’elezione, la fusione con un altro comune, l’arrivo di un commissario prefettizio, nuove elezioni appena sei mesi fa. Latita ancora però la parola fine sulla vicenda ex Ferriani.

Non tutto, comunque, è perduto: “La proprietà ha chiesto un incontro nei mesi scorsi, a ottobre se non vado errato, per discutere proprio dell’area ex Ferriani, dopo l’inizio del 2018”, svela il primo cittadino di Terre del Reno Roberto Lodi. Una data ancora non è stata fissata ma, dice il sindaco, “non vedo l’ora di sentire le loro proposte. Del resto l’area è interessante e si presterebbe bene anche a futuri sviluppi essendo prossima al Cer ma dallo stesso lato del Comune”. Ora resta da vedere cosa ne sarà delle nuove discussioni sull’ex fonderia.

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