Spettacoli
13 Novembre 2017
Il documentario Binxêt sulla guerra al popolo curdo ha fatto il tutto esaurito a Ferrara. Intervista a Luigi D'Alife

Un regista al “confine maledetto” tra Turchia e Siria

di Redazione | 9 min

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di Pietro Perelli

Dopo il successo del documentario che lunedì sera ha fatto sold out all’Apollo abbiamo raggiunto telefonicamente il regista Luigi D’Alife con cui abbiamo potuto parlare della sua esperienza. Binxêt è un documentario che racconta i 911 km di confine che dividono Turchia e Siria oltre a separare il popolo curdo. Un confine geopoliticamente centrale negli avvenimenti degli ultimi anni, al centro della guerra contro Daesh ma anche della repressione che subiscono le popolazioni locali da parte di Erdoğan.

Con la voce narrante di Elio Germano, il regista propone – riprendendo le parole dal sito – “un racconto di denuncia sulle pesanti responsabilità dell’Europa nel sottoscrivere un accordo che violenta le vite di migliaia di persone, solo un piccolo tassello nella storia di un popolo che continua a non rassegnarsi all’idea di essere diviso dai confini, storie di uomini, donne e bambini che sono l’immagine del non arrendersi”.

Ti aspettavi il successo a Ferrara? La sala 4 dell’Apollo era sold out e alcune persone sono dovute rimanere fuori.

C’era la sensazione che la proiezione potesse essere partecipata perché le prevendite erano andate bene e devo anche ringraziare i ragazzi della Resistenza che mi hanno aiutato molto per sostenere e organizzare la proiezione. Ogni volta che una sala si riempie però è sempre una sorpresa, anche perché si tratta di un film totalmente autoprodotto e autofinanziato per cui riempire la sala di un cinema in una città come Ferrara è sicuramente un risultato importante che sta a significare come le persone abbiano sete di informazione. Purtroppo non tutti sono riusciti a entrare ma per fortuna siamo già riusciti a organizzare una nuova proiezione per lunedì prossimo.

Come nasce Binxêt?

L’idea è nata nell’autunno 2015 quando era in dirittura d’arrivo la chiusura dell’accordo tra Ue e Turchia che fu poi firmato definitivamente nel marzo 2016. Iniziava a capirsi la direzione che si sarebbe presa, era il periodo delle grandi marce dei profughi sulla rotta balcanica. Poco prima, nel maggio del 2015, ho dovuto attraversare illegalmente il confine tra Turchia e Siria per arrivare a Kobane, da poco liberata. Era l’unica possibilità. Il confronto con questo confine pericolosissimo e militarizzato mi ha spinto a voler restituire quello che ho visto e quello che stanno vivendo in quei territori a un pubblico che fosse il più ampio possibile. Inoltre nei vari viaggi che ho compiuto mi sono reso conto che quel confine assumeva un ruolo sempre più importante sia a livello simbolico che a livello strategico. C’era la lotta all’Isis, le città sotto coprifuoco, le minacce di Erdogan di invadere il Rojava, in quella striscia di terra si sono giocate partite geopoliticamente molto rilevanti a livello mondiale.

In Binxêt (in curdo sotto il confine) ricordi come questo confine che divide Siria e Turchia sia costruito tramite un accordo del 1921 tra Francia e Inghilterra seguendo la linea di una ferrovia costruita sempre a inizio secolo dai tedeschi per collegare Berlino a Bagdad. Cosa rende questo territorio così importante a livello geopolitico? E perché si hanno così poche informazioni da parte dei media mainstream?

Oltre a quello che accennavo precedentemente, la lotta a Daesh, la militarizzazione del confine da parte dei turchi c’è anche un altro aspetto rilevante. Questo confine divide lo stesso popolo, divide il popolo curdo del Rojava dal popolo curdo del Bakur. Viaggiando in questi territori sia dalla parte turca che da quella siriana e parlando con le persone che lo abitano e che lì lavorano ho raccolto storie che colpiscono molto. Storie che non riguardavano solo la guerra ma soprattutto la divisione di intere famiglie che si sono ritrovate improvvisamente dalle parti opposte di un confine segnato da muri, filo spinato e campi minati costruiti sia dalla Turchia di Erdoğan che dalla Siria di Assad. Ho incontrato persone che dall’altra parte del confine hanno un fratello, una sorella, un genitore che non riescono a vedere senza mettere a rischio la propria vita passando illegalmente il confine che li separa. È quindi un confine che racconta moltissime storie, storie di guerra, storie di resistenza ma anche storie di vita quotidiana, di persone divise dal filo spinato.

Ho deciso di raccontare questa storia perché la situazione del giornalismo in Italia è pessima. Lo è per un’infinità di ragioni ma credo che la problematica principale sia la tendenza a non andare più con i propri piedi sul territorio per verificare una notizia ma ci si limiti a ribattere agenzie stando comodamente seduti nella propria redazione. Per fortuna però ci sono anche giornalisti che continuano a fare ottimamente il loro lavoro e che ci hanno raccontato quello che stava succedendo nella zona. C’è però stato un silenzio assoluto rispetto alle implicazioni che l’Europa ha rispetto a quel confine.

Il regista Luigi D’Alife con Elio Germano

Che esperienza è stata passare quel confine clandestinamente?

Un esperienza indimenticabile, che mi rimarrà per sempre. La prima volta eravamo un gruppo di otto torinesi partiti per portare un po’ di aiuti a Kobane raccolti in Italia con iniziative solidali. La tensione era molto alta però non eravamo partiti alla sprovvista, eravamo organizzati e accompagnati da un gruppo di curdi locali che ci guidava. Sapevamo benissimo i rischi a cui andavamo incontro anche se fino all’ultimo c’è stata la speranza di poter passare quel confine legalmente. Il passaggio è avvenuto al tramonto ed è stato molto carico di tensione. C’era tanta voglia di arrivare a Kobane però anche consapevolezza di quello che si stava facendo, non eravamo sconsiderati, sapevamo a cosa andavamo incontro e che se ci avessero visto i militari turchi nella migliore delle ipotesi ci avrebbero arrestato ma avrebbero anche potuto spararci. Siamo passati sotto la strada dentro un tubo di cemento, buio, stretto, in mezzo al fango e al filo spinato, impigliandosi e cercando di fare tutto il più velocemente possibile per acquattarsi nell’erba alta e neanche notare che dici metri sopra la testa avevo un carro armato turco che per fortuna non ci ha visto. Poi arrivati in salvo dall’altra parte è stata una gioia immensa, ricorderò per sempre la scena di questo confine illuminato circondato dal buio più totale. Un esperienza forte che sicuramente mi ha segnato e che probabilmente è stata decisiva nella decisione di scrivere un documentario su quel confine.

Hai definito questo film un documentario partigiano. Qual’è secondo te l’importanza di compiere una scelta?

Penso sia assolutamente importate e che non vada a collidere con quello che sia un racconto dei fatti oggettivo. Essere partigiani non vuol dire raccontare le cose, magari falsificandole, per portare qualcuno dalla tua parte, ma raccontare le cose come le vedi e poi prendere una parte in base a ciò che hai visto e quindi raccontato. Inoltre credo sia assolutamente necessario prendere una parte quando i fatti che accadono sono così evidenti, non si può rimanere in silenzio riguardo a diritti umani che vengono calpestati, rispetto ad accordi economici fatti sulla pelle e sulle vite di migliaia di persone. Nel 2016 su quel confine sono state uccise 170 persone, 31 erano bambini. In questo è un documentario partigiano perché sta dalla parte di quelle persone che subiscono violenze e dice che è necessario farlo, che è necessario prendere parola. Non si può rimanere un silenzio perché significherebbe essere complici e in questo credo che il giornalismo italiano debba e possa fare di più prendendo una parte pur raccontando i fatti in maniera oggettiva. Fare un documentario partigiano non significa raccontare qualcosa che non è vero, significa raccontare una storia e alla fine, alla luce di ciò che si è visto, prendere una parte.

Già nel documentario ci sono molte interviste a donne curde e hai preannunciato una sorta di spin off in cui raccoglierai le interviste fatte alle donne durante la tua esperienza. Qual’è il ruolo della donna in quel territorio? E che esempi può trarne il femminismo europeo?

Il ruolo della donna all’interno della rivoluzione e di questa società è fondamentale e lo è anche nel processo di costruzione di questa. La donna in medio oriente ma anche qui in Italia e in Europa, anche se in modo diverso, continua a subire una vessazione di tipo patriarcale e maschilista. A volte si pensa, magari con qualche pregiudizio, al medio oriente come una società arretrata invece in quella pozione di territori che ho visto il ruolo della donna è fondamentale e di primo piano, potrebbe anche essere un esempio per noi. In tutti gli ambiti della società civile si sono creati luoghi di discussione femminili. Le combattenti hanno un ruolo devastante all’interno della società, vedere le donne imbracciare le armi, combattere i miliziani dell’ISIS è un cambiamento paradigmatico. Per una donna oppressa dal regime di Daesh o comunque soggetta a un modello culturale maschilista essere liberata da un plotone di donne in armi ha un impatto fortissimo.

Le donne con cui ho parlato hanno criticato un certo tipo di femminismo occidentale più dedito al legare la libertà all’apparenza, al potersi vestire come si vuole o al poter lavorare, spesso questo non si può ricondurre a una vera libertà ma a una libertà fittizia, imposta. Il femminismo dovrebbe essere un cambio culturale che vada oltre queste apparenze che a volte sembrano semplicemente un modo per far credere alla donna di aver raggiunto un grado maggiore di libertà.

In Binxêt la maggior parte delle persone da te intervistate fa una cosa che colpisce particolarmente, si appella ai popoli europei e mai all’Europa. Come spieghi questi appelli al popolo e non all’Europa?

Sono partito per girare il documentario all’inizio di marzo del 2016 e sono entrato in Rojava intorno al 18 che è il giorno in cui è stato firmato l’accordo tra UE e Turchia e tutte le persone che ho potuto intervistare avevano ben presente cosa significasse. Non parlo solo Riza Altun (comandate e co-fondatore del PKK) o dei giornalisti o del ministro degli affari esteri del Cantone di Kobane ma anche delle persone della strada, tutti sostenevano che l’Unione Europa doveva vergognarsi a sottoscrivere un accordo come quello con un criminale quale è Erdoğan. Da qui l’appello ai popoli europei e non all’Europa inoltre, come curdi, hanno una concezione dello stato come strumento di oppressione a causa dell’esperienza che hanno vissuto durante la loro storia recente, divisi tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Non hanno nessuna fiducia nello stato tant’è che il nuovo sistema che stanno cercando di costruire non ricrea lo stato come lo conosciamo ma una confederazione di autonomie dove si parla di autogoverno, non di governo. Per questo l’appello era al popolo europeo, perché non vi è fiducia negli stati ma nelle persone. L’appello che facevano era quello di capire ciò che sta succedendo e prendere una posizione. Per fare un esempio linguistico concreto in curdo per indicare lo stato si usa la stessa parola che si una per indicare un regime (rejîm).

Visto il successo della prima proiezione sarà possibile assistere nuovamente al documentario lunedì 13 novembre alle ore 19.00 all’Apollo. (clicca qui per maggiori info)

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