Lettere al Direttore
22 Luglio 2017

Sul concetto di tradizione

di Redazione | 7 min

Davvero la tradizione è una innovazione riuscita bene, come diceva Oscar Wilde (citato nei giorni scorsi dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, durante la sua visita alle Bonifiche Ferraresi)?

No. Il mondo dell’agricoltura ferrarese ha saputo sfruttare molto bene l’opportunità pubblicitaria che gli è stata concessa dal sentimento reverenziale che gran parte della popolazione nutre per il concetto di “tradizione” ma non si dovrebbe mai confondere un buono slogan pubblicitario con una verità filosofica. La tradizione non è una innovazione riuscita bene.

In realtà, la tradizione è quasi sempre una soluzione che è sopravvissuta alla sua ragion d’essere a causa della ignoranza di chi la applica.

Il chimico, partigiano e scrittore ebreo Primo Levi, già autore di “Se questo è un uomo” e “La tregua” ha descritto in maniera magistrale una situazione di questo tipo nel racconto “Cromo”, contenuto nella raccolta “Il sistema periodico” del 1975. Nel periodo in cui lavorava come “capo-chimico” in una industria di vernici, Levi si trovò di fronte ad una strana “ricetta” per la produzione di un particolare tipo di vernici; una ricetta che conteneva una notevole quantità di Cromo (sostanza costosa e molto tossica). Cercando di capire a cosa dovesse servire quella inspiegabile aggiunta di Cromo, arrivò a scoprire che… nessuno lo sapeva. Il Cromo veniva aggiunto alla ricetta originale soltanto perché “si era sempre fatto così” (cioè “per tradizione”). Dopo ulteriori e faticose indagini, riuscì a scoprire che il Cromo era stato aggiunto alla ricetta anni prima da un suo predecessore al solo scopo di recuperare una partita di vernice “impolmonita” (cioè “degradata”). Il suo predecessore era poi andato in pensione ed i suoi colleghi, che non erano chimici dello stesso livello, avevano semplicemente continuato a seguire quell’ultima ricetta in modo pedestre ed acritico anche quando il Cromo non era più necessario.

Questa è la tradizione: una soluzione ideata in altri tempi, da altri uomini (non necessariamente migliori di noi) e per altri scopi che nessuno ha più il coraggio professionale di mettere in discussione. La tradizione è lo stesso meccanismo reverenziale che ha mantenuto la medicina occidentale “ancorata” per secoli ai princìpi dei filosofi dell’antica Grecia, anche quando i progressi della scienza medica hanno reso evidente che si trattava di pure idiozie. Non porta quasi mai ad un prodotto “migliore” per la banalissima ragione che non tiene conto nè delle informazioni raccolte dopo l’ideazione di quella soluzione nè dei progressi tecnici realizzati dopo la sua creazione.

Una forma particolarmente perniciosa di tradizionalismo è il “passatismo”, cioè la tendenza a considerare ciò che è stato fatto ieri – per definizione – migliore di ciò che si può fare oggi, non importa quanta creatività, quanta scienza e quanta tecnologia sia possibile “iniettare” nello stesso prodotto o nello stesso processo produttivo ai giorni nostri. Questa particolare forma di tradizionalismo confonde il valore storico di un oggetto con il suo valore d’uso (la cosiddetta “qualità”).

Secondo questa “scuola” filosofica, il vino migliore è sempre quello “di una volta” anche se nel frattempo il mercato è cambiato in modo radicale ed anche se sappiamo che le tecniche di produzione in uso fino a qualche tempo fa non erano molto sicure. Da un punto di vista storico, è certamente importante sapere come veniva prodotto il vino ai tempi di Giulio Cesare ma chi di noi si azzarderebbe a portare in tavola una bottiglia di vino prodotto con le rozze tecniche in uso nella Roma imperiale? Un vino talmente “pesante” da non poter essere bevuto senza un’aggiunta di acqua e spesso contaminato da spore, muffe, tossine ed alcol metilico.

Le conseguenze di questa idolatria per la tradizione sono spesso drammatiche. Riporto qui di seguito, ancora una volta, un brano di un articolo del 2016 che ho già citato nei giorni scorsi.

“Alcuni anni fa i produttori della “focaccia di Recco” sono riusciti a ottenere una severissima certificazione: oggi una focaccia si può chiamare “di Recco” soltanto se viene seguita minuziosamente la complessa ricetta e solo se la focaccia viene prodotta nel comune di Recco e in un altro paio di piccoli comuni limitrofi. Lo scorso dicembre il “Consorzio focaccia di Recco” ha aperto uno stand alla fiera dell’artigianato di Rho dove distribuiva assaggi di focaccia di Recco. Quando sono arrivati i carabinieri lo stand è stato chiuso e i gestori sono stati denunciati per frode alimentare. Se la focaccia si può produrre solo a Recco, e non si può surgelare e quindi trasportare, allora fuori da Recco non si può nemmeno mangiarla: quindi anche uno stand promozionale dello stesso “Consorzio focaccia di Recco” è illegale. Di fatto, per proteggersi dalla virtuale concorrenza, i produttori della focaccia di Recco si sono tagliati ogni possibilità di crescere ed esportare il loro prodotto.”

Da “La sacralità del “made in Italy” è una rovina”, apparso online su “Il Post” il 7 Giugno 2016.

L’incapacità di accettare i “contributi” scientifici e tecnologici del XXI secolo, come la tecnica della surgelazione, può rendere impossibile la sopravvivenza di prodotti del passato che pure meriterebbero una sorte migliore. Oppure questo fanatismo tradizionalista può cadere nel ridicolo, come dimostra il caso degli Stradivari “surclassati” dai violini del XXI secolo.

Da sempre alla ricerca del segreto degli Stradivari, la scienza sostiene di aver raggiunto una conclusione: il segreto non esiste. Senza sapere quale strumento stiano suonando o stiano ascoltando, né i musicisti né il loro pubblico sono in grado di distinguere uno Stradivari da un violino moderno. Anzi, quest’ultimo sembra essere apprezzato leggermente di più.

Da “Gli Stradivari? Belli ma i violini moderni suonano meglio” apparso online su Repubblica.it lo 8 Maggio 2017.

L’Italia non è arrivata all’attuale livello di fanatismo tradizionalista da sola. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tra gli anni ’50 e ’70, il nostro paese ha tentato più volte di imporsi sulla scena internazionale facendo uso delle sue doti di creatività e di innovazione. Molti lettori ricorderanno le scorribande del primo presidente dell’ENI, Enrico Mattei, nel campo dell’energia e molti ricorderanno il tentativo di Adriano Olivetti di trasformare il nostro paese in uno dei primi e più grandi produttori di computer. Ebbene, Enrico Mattei venne assassinato la sera del 27 Ottobre del 1962 da una bomba che, ora lo sappiamo, fu quasi certamente piazzata sul suo aeroplano da un agente della CIA. La Olivetti, dopo gli exploit legati al mainframe “Elea 9003” del 1959, fu lentamente ma inesorabilmente “convinta” da alcuni importanti personaggi della scena politica di allora, notoriamente legati agli Stati Uniti, ad abbandonare questo settore strategico e a dedicarsi al altro.

Silenziosamente, cercando di alzare meno polvere possibile, il nostro paese è stato “convinto” a lasciare il settore “innovazione” ad altri giocatori. In mancanza di un presente nel quale fosse possibile lasciarci competere ad armi pari con gli altri giocatori, ci è stato gentilmente concesso di continuare a trastullarci con il nostro passato.

E noi – obbedienti – proprio questo abbiamo fatto: abbiamo imparato (o re-imparato, dopo l’ubriacatura fascista per la Roma imperiale) ad idolatrare il nostro glorioso passato ed abbiamo completamente disimparato a curarci del presente.

Nel corso degli anni abbiamo anche imparato a nascondere la nostra ignoranza e la nostra paura dietro il comodo paravento della tradizione. Non ci avventuriamo più nel territorio protetto dell’elettronica e dell’informatica, dominato dagli americani e dagli asiatici, perché non abbiamo più università in grado di formare figure realmente competitive con quelle americane in questo settore. Non è certo un caso che in Italia non esista più nessuna azienda in grado di produrre smartphone, fotocamere digitali ed altri prodotti di ”consumer electronics”. Non ci avventuriamo più “fuori porta” nel settore dei servizi Internet perché sappiamo bene che i colossi del settore ci farebbero a pezzi. Non è certo un caso che tutti i nostri “portali”, come Trivago e Facile, parlino quasi solo italiano e si rivolgano palesemente solo al mercato nazionale (nonostante il fatto che la Grande Rete, per sua natura, sia sovrannazionale).

Siamo usciti sconfitti dall’ultima guerra mondiale e la nostra condanna è questa: il tradizionalismo. Una macina legata al collo, sempre pronta a trascinarci a fondo.

Quindi, per favore, smettetela di evocare la tradizione ogni volta che volete difendere il nostro asfittico mercato locale ed ogni volta che volete giustificare uno dei nostri tanti limiti. È offensivo ed irritante.

Alessandro Bottoni

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