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14 Luglio 2017
Viaggi e incontri di un artista dimenticato

Il Rinascimento di Francesco Verla

di Redazione | 6 min

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di Maria Paola Forlani

Si è aperta fino al 6 novembre 2017 al Museo Diocesano Tridentino la mostra Viaggi e incontri di un artista dimenticato. Il Rinascimento di Francesco Verla, la prima monografia mai dedicata a questo singolare pittore, noto per lo più agli studiosi, ma poco al grande pubblico. L’esposizione, curata da Domizio Cattoi e Aldo Galli, conclude un complesso percorso di ricerca sviluppato in collaborazione con il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento. L’indagine ha fatto emergere numerosi dati inediti, nuove attribuzioni e documenti finora sconosciuti che vanno a riempire significative lacune nella conoscenza di un artista di notevole importanza per la storia dell’arte locale.

Nato presso Vicenza, Francesco Verla ebbe una carriera itinerante che lo portò nei primi anni in Umbria, dove conobbe il grande Pietro Perugino, e a Roma, governata allora da papa Alessandro VI Borgia. Qui si diede allo studio dell’arte antica e delle rovine del Palazzo di Nerone, la famosa Domus Aurea, dove scoprì quel genere di decorazioni – allora di gran moda – che erano dette “grottesche”, Queste esperienze rimarranno indelebili nella sua memoria e il pittore vicentino sarà tra i primi a diffondere a nord del Po un repertorio fatto di dolcissime figure devote e di cornici estrose e bizzarre che lo distinguono nettamente dai contemporanei.

Rientrato in patria, Verla si afferma presto come uno dei pittori più apprezzati di Vicenza, partecipando al cantiere simbolo del Rinascimento in città, quello della chiesa di San Bartolomeo, sciaguratamente distrutto nell’Ottocento. Una grande, bellissima pala d’altare dipinta per una cappella di quell’edificio è stata identificata in quest’occasione ed è presente in mostra. Il precipitare della situazione politica, che vede Vicenza pesantemente coinvolta nella guerra che contrapponeva la Repubblica di Vicenza e l’Impero Asburgico, spinge il pittore a trasferirsi prima a Schio, dove lascia uno dei suoi quadri più ispirati (anch’esso in mostra), e poi, nel 1513, in Trentino. Qui si fermerà per diversi anni, lavorando, oltre che nella città vescovile, a Terlago, a Seregnano, a Calliano, a Mori e a Rovereto, dove prese dimora e dove morì, ancora giovane, nel 1521. In una terra ancora profondamente legata a stilemi gotici, Francesco Verla fece da apripista al rinnovamento culturale e artistico che di lì a poco si sarebbe sviluppato mirabilmente grazie all’azione del principe vescovo Bernardo Cles.

La perdita di molti suoi lavori, il successivo arrivo alla corte clesiana di artisti di prima grandezza come Romanino, Dosso Dossi e Marcello Fogolino, e anche un certo imbarazzo della critica davanti alla sua diversità rispetto ai pittori veneti contemporanei, ne hanno a lungo oscurato i meriti. Per il pubblico Verla è dunque oggi un artista ‘dimenticato’. Da qui nasce l’urgenza di riscoprirlo e di rivalutarne il ruolo di alfiere del Rinascimento tra l’Adige e le Alpi.

La mostra riunisce per la prima volta la gran parte delle opere di Francesco Verla, alcune delle quali restaurate per l’occasione: un corpus di sedici opere – soavi pale d’altare, affreschi e bizzarri fregi a grottesche – radunato grazie a prestiti provenienti da numerose istituzioni nazionali e chiese del vicentino e trentine. L’itinerario di visita, che intreccia opere note ad altre pressochè inedite, svela al visitatore la singolare personalità artistica del Verla e permette di misurarne i debiti con Pietro Perugino e Bartolomeo Cincani, detto il Montagna, maestro della civiltà figurativa vicentina tra XV e XVI secolo. Per ricostruire al meglio i contesti storici e stilistici dell’epoca, sono poste in mostra a confronto con opere del Verla una pala del Montagna proveniente da san Giovanni Ilarione, già a Vicenza, una scultura lignea di bottega veronese della fine del XV secolo e un dipinto legato al mondo figurativo di Pietro Perugino.

Apre l’itinerario espositivo la Madonna in trono col Bambino tra i Santi Antonio Abate e Pietro martire (1503 1505), proveniente da Velo d’Astico, chiesa di Santi Martino e Giorgio. Al centro del dipinto, innalzata su di un maestoso trono alla cui base figurano due putti alquanto distratti, siede la Madonna che con lo sguardo abbassato e con gesto di amorevole affetto offre la mano al Bambino, seduto sul suo ginocchio, che le stringe il pollice. Il piccolo si rivolge a sinistra verso il probabile San Pietro martire immerso nella lettura, a cui sembra indirizzarsi anche lo sguardo di Sant’Antonio Abate. La scena, che si svolge all’interno di una costruzione architettonica con volta a botte, è inquadrata da un’arcata dorata, finemente decorata con motivi a candelabre, che si apre all’esterno lasciando intravedere una porzione di paesaggio e un limpido cielo azzurro.

Opera della maturità è invece Madonna in trono col Bambino, due angeli, San Giuseppe e San Francesco 1520, proveniente dalla Pinacoteca di Brera di Milano.

Su di un singolare trono, il cui basamento mostra in finto bassorilievo la scena del Peccato originale, si erge monumentale il gruppo della Madonna con il Bambino affiancato da due angeli che sorreggono i lembi dell’ampio mantello della Vergine. Essi rivolgono lo sguardo ai due santi inginocchiati ai piedi del baldacchino: San Francesco ci guarda mentre indica con la mano sinistra San Giuseppe che si rivolge a mani giunte alla Madonna.

La composizione è esemplata sul modello della Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna, probabilmente attraverso la mediazione del vivace schizzo di Berlino, presente in mostra. Anche la pala mantovana non è direttamente collegata alla questione immacolista, quindi si potrebbe pensare semplicemente che quei prestiti iconografici ( peccato originale) siano da motivare solo in ragione della fortuna del modello. Tuttavia, l’immagine della Madonna che, secondo la radicata convenzione iconografica della nuova Eva, si erge al di sopra del peccato dei progenitori, offriva uno spunto che ben poteva essere adottato e fatto filtrare negli ambienti francescani proprio in virtù della popolarità dell’immacolata.

In accordo con l’orientamento stilistico della tarda produzione di Verla, la misurata grazia centroitaliana degli esiti di inizio secolo non è più avvertibile nell’opera in esame, se non fosse nei due angeli ai fianchi della Vergine. L’opera presenta anzi una discrepanza stilistica abbastanza netta rispetto del corpus di Verla, particolarmente leggibile nel gruppo della Madonna con il Bambino; quei volti tondi, trasognati, quasi fanciulleschi, cui il vicentino ci aveva abituato nelle sue immagini della Vergine, sono rimpiazzati qui da un maturo viso ovale, la cui forma allungata rispecchia quella innaturale del corpo di Gesù; indizi sufficienti per interrogarci sull’eventualità che qualche allievo, magari lo stesso figlio Alessandro, possa aver preso parte all’esecuzione dell’ultima opera nota tra quelle firmate da Verla.

Se insomma non può non ravvisarsi nella tela di Brera un certo affanno traducibile nella sensazione di precarietà dell’impianto compositivo, trovo condivisibile l’opinione di Lucco che riconosce nell’ancona una tra le opere “più sostenute e di maggior impegno” fra quelle dipinte da Verla nell’ultimo tratto della sua vita.

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