Attualità
25 Maggio 2017
Intervento della scrittrice Francesca Boari sulle parole di monsignor Negri

Manchester. “Caro vescovo, il guru è Lei”

di Redazione | 3 min

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Caro vescovo Negri, non voglio restare in silenzio davanti alle sue parole.

Si può resistere in silenzio, si può scegliere il silenzio e poi si può addirittura morire dello stesso silenzio che un giorno ci era sembrato riparo. Mi sono stancata, e rispondere alla sua provocazione mi è necessario per non rischiare di sentirmi orfana di una chiesa nella quale ho sempre riposto le speranze, seppure più volte disattese e proprio da voci dissonanti con il principio di accoglienza, la stessa chiesa che oggi riconosco nel nostro Santo Padre, papa Francesco. Non voglio soffermarmi sulle sue affermazioni relative alla guerra di religione e al fatto che non tutte le religioni siano religioni aperte al dialogo.

La sua volontà di giudizio a prescindere spaventa, ci riporta in atmosfere cupe e tristi, ci avvolge nelle nebbie del pensiero sulle quali ha potuto edificarsi solo una certa cristianità che è la stessa che ancora oggi può condividere le sue discutibili riflessioni sugli accadimenti di Manchester.

Lei rivolge la sua lettera ai “carissimi figli” dello stadio, teatro dell’attentato e li definisce figli indesiderati (“siete venuti al mondo, molte volte neanche desiderati”). Questa sembrerebbe la conclusione della sua lettera, quasi una giustificazione ad una morte altrettanto insensata e ingiustificabile. Una equazione a dir poco semplicistica e offensiva, specie se pronunciata a mo’ di invettiva.

Cara Eccellenza, gli abissi dell’interiorità meritano giudizi più consapevoli e dovrebbero farsi sintesi di una capacità di ascolto autentico.

In realtà, in questa Sua, come in altre occasioni, ad ergersi a guru sembra essere proprio Lei, illuminato appunto, capace di inviare denunce al tessuto sociale senza alcuna possibilità di replica.

Se è vero che ci troviamo ad abitare dentro una società malata è altrettanto vero che le responsabilità vanno condivise.

Cara Eccellenza, a me piace pensare che anche nei cuori più fragili si possano intravvedere possibili sensi. La famiglia non può essere chiusa in un giudizio così superficiale in cui adulti, sordi e immobilizzati dentro uno smisurato egoismo, traducano un non senso contagioso alle nuove generazioni. Così come mi sembra offensivo e riduttivo pensare a giovani che si stringono la vita intorno all’avere tutto e subito “senza ragioni adeguate per vivere”.

E veniamo all’annuncio del Male come “persona” che si insinua e si presenta all’improvviso a ghermire tanta stolta e diffusa stupidità. Di che Male sta parlando? Di un Male che si presenta appunto come persona, e quindi altro da noi, fuori da noi, che si concretizza e si materializza in altro. E’ proprio da un Male così concepito, ovvero come sembra concepire lei, che facciamo fatica a vedere vie di salvezza.

Solo se pensiamo al male che è dentro di noi, che si insinua nella nostra quotidianità per fattori complessi e non certo riducibili solo alla cecità del mondo adulto, oppure sì, ma di tutto il mondo adulto che circonda la condizione esistenziale dei giovani, solo se riusciamo a pensare in questa ottica possiamo aprirci alla possibilità di un bene di cui la nostra società, più che di regole e di giudizi che sanno odore di linciaggio, ha estremo bisogno.

Forse non sarò riuscita a leggere tra le righe della Sua invettiva, limite mio e me ne scuso se così fosse, ma io non trovo nelle sue parole nessuna forma di comprensione del reale, di ascolto delle urgenze interiori, e infine di quella Caritas (Deus caritas est) di cui è orfana la nostra terra.

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