Il mio vicino: il teatro dentro e oltre il carcere
Il regista Horacio Czertok costruisce una terra possibile nella terra di nessuno
di Federica Pezzoli
Perché fare teatro in carcere? È una domanda che il regista Horacio Czertok, fondatore del Teatro Nucleo e dei laboratori di teatro nel carcere di via Arginone, si è fatto più volte e che diverse volte gli è stata posta. “I detenuti prima o poi usciranno e verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa? Una persona rancorosa e diffidente o disponibile e capace di reinserirsi nella società?”: questa la domanda con la quale risponde.
Moncef Aissa è stato uno dei suoi attori-detenuti, uno dei primi, un giorno uscendo di casa se lo è trovato davanti. “Che ci fai qui? Sei scappato di prigione?”, ha chiesto Horacio. “Sto andando in bici, io ora abito qui”. Ecco come è nato “Il mio vicino”, spettacolo prodotto dal Teatro Nucleo dal 2010 e portato, per la prima volta a Ferrara, in una sua riedizione sabato sera nello spazio teatrale di Ferrara Off.
“Il mio vicino” narra della costruzione di “una terra possibile, fatta di parole, gesti e poesia” a partire dall’incontro di due “destierradi”, come si direbbe in spagnolo, due esseri ai quali la terra è stata tolta per volere di qualcun altro: Moncef, detenuto originario della Tunisia, e Horacio, costretto all’esilio dalla sua Argentina dopo il colpo di stato di Videla. Un incontro avvenuto in “una terra di nessuno”: il carcere, “una no man’s land” piena di sofferenza.
E come in ogni tradizione orale che si rispetti, non può mancare la musica, realizzata da Andrea Amaducci, che si divide fra il ritmo e il disegno, dando forma grafica alle narrazioni che ascoltiamo.
La testimonianza dell’esilio di Horacio, iniziato quel febbraio del 1974, quando i militanti della Alleanza Anticomunista Argentina, laTripla A, lo hanno “incappucciato e portato via sul sedile posteriore di un’auto”, lo hanno torturato, hanno minacciato la sua famiglia e lo hanno lasciato vicino ai binari di uno scalo ferroviario, si incrocia con quella di Moncef, che parla del teatro come di un momento di liberazione: “nel teatro puoi gridare, immaginate non poter gridare per anni e poi all’improvviso la libertà di farlo”. E ancora, per Moncef come per gli altri attori-detenuti, il teatro è uno strumento per recuperare la propria dignità: “non sei più sui giornali per il reato che hai commesso, ma perché hai fatto qualcosa di positivo”.
Dignità: è “la musica perduta di Horacio”. Più del panico che ti scuote quando minacciano tua moglie e tuo figlio, più del vuoto che senti subito dopo il sibilo del proiettile che ti è passato accanto andandosi a conficcare nel muro dietro di te, “la ferita più grande” che “sarà lì per sempre”, è la privazione della dignità, perché “la tortura è un’esperienza che cambia le persone”: “questa è la terra di nessuno che Horacio si porta dentro”.
Moncef, invece, dentro si porta la letteratura araba: il periodo che lo ha sempre affascinato di più è “il periodo dell’ignoranza”, fatto di “poemi di poeti analfabeti”. Il poema di un meticcio, figlio di un bianco e di una schiava, che chiede alla giovane che ama di non fermarsi al colore della sua pelle, la poesia di un mercante che per vendere seta nera che nessuno voleva si è inventato la storia di una donna velata che faceva innamorare gli uomini di Baghdad solo con lo sguardo, il canto dell’esilio di un poeta arabo siciliano costretto a lasciare la propria terra con l’arrivo dei Normanni.
L’ultimo canto è su quella mano del destino che ha impedito a entrambi di non poter vivere accanto ai propri padri i loro ultimi momenti: “l’annuncio della morte mi ha raggiunto nella terra dell’esilio”.