di Federica Pezzoli
Ridare voce e corpo a pensieri, parole, testimonianze, esperienze. Costruire non una memoria retorica, ma una memoria di carne, di sangue, lacrime; non innalzare freddi monumenti nella pietra, ma ripercorre passi e sentieri nella terra.
È “Lontano nella neve. Storie d’amore e resistenza”, primo studio di uno spettacolo prodotto da A.R.T.I., vincitore nel 2015 del primo premio al concorso “Accendi la Resistenza. Storie di donne e di uomini in guerra” – indetto dalla Fondazione Istoreto e dal Polo del ‘900 di Torino. Marco Intraia, Marco Luciano, Alessandra Macrì e Veronica Ragusa lo hanno sviluppato in questi giorni nell’ambito della residenza artistica “Cose Nuove” al Teatro Nucleo di Pontelagoscuro e il risultato del loro lavoro è andato in scena sabato sera nello spazio teatrale di FerraraOff.
“I partigiani sembrano gladiatori – ha detto il regista Marco Luciano nell’incontro con il pubblico al termine della serata – ma erano ragazzi di vent’anni”, “noi oggi non riusciamo a capire e neppure immaginare cosa significhi combattere per la libertà”, morire per la libertà, senza neppure sapere come andrà a finire, prima del buio solo la speranza di aver fatto tutto ciò che si poteva per il riscatto del proprio paese. Da questi spunti è nato questo testo, costruito attraverso un lavoro di indagine su fonti storiche e su testimonianze dirette: “una narrazione”, ha spiegato ancora Luciano, e nello stesso tempo “un tentativo di ritualità, nel senso di momento partecipato”.
I protagonisti di “Lontano nella neve” non sono eroi, ma persone semplici con vissuti altrettanto semplici, proprio per questo non lasciano spazio all’alibi “cosa posso fare io?” e spingono alla scomoda domanda “cosa avrei fatto io?”. Giannino, collaboratore partigiano arrestato a ventisette anni in una libreria di Milano per aver consegnato un messaggio, non sa più, ora che di anni ne ha ottantacinque, se davvero sia sopravvissuto a quell’esperienza o se la sua vita sia finita in quel giorno di aprile insieme a quella del suo compagno Sandro.
C’è la coraggiosa Leopolda, superstite della strage di Sant’Anna di Stazzema, che cerca in eterno il suo fratellino Enrico, che si rifiuta di riconoscere come morto. C’è Gabriella, trentaduenne madre di due bimbi, moglie del partigiano Bruno Reverberi, martoriata nel corpo e nello spirito, ma non piegata nella volontà, l’hanno fucilata spezzando la sua vita e quella del bimbo che cresceva nel suo grembo.
E poi il j’accuse di Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti”, e le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Il tutto per costruire un teatro civile che vuole utilizzare l’arte e la poetica come armi e strumenti di riscatto etici, come pungoli per le nostre coscienze: non didattica, ma dialettica.
Non a caso lo spettacolo inizia e finisce tra il pubblico: è un cerchio che si chiude, un testimone che viene passato. Le domande “Chi è il nemico?” e “Tu ti vedi da qualche parte lontano nella neve a combattere con un fucile in mano?”, sono rivolte a noi. A loro non rimane che correre verso la morte oppure verso il futuro.
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