Eventi e cultura
16 Giugno 2015
L’età dell’oro di Alfonso II d’Este rievocata dagli allievi del conservatorio a palazzo Schifanoia

Torna a Ferrara l’Aminta di Torquato Tasso

di Redazione | 4 min

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Un salto indietro nel tempo all’età dell’oro della corte di Alfonso II d’Este, ultimo duca di Ferrara e grande mecenate delle arti: questo è stato l’altra sera l’allestimento di “Aminta”, la favola pastorale di Torquato Tasso, messo in scena dagli allievi del conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Un’incursione nei fasti della corte estense resa ancora più suggestiva dalla raffinata cornice del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, messo a disposizione gratuitamente dall’Amministrazione comunale di Ferrara.

La serata è stata l’evento conclusivo del progetto “Feudarmonico”, percorso interdisciplinare dedicato allo studio della musica rinascimentale, della danza storica e della commedia dell’arte e gestualità antica, organizzato dal conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. L’edizione 2015 è stata dedicata all’età dell’oro della città sotto Alfonso II d’Este: anni analizzati nei loro molteplici aspetti con laboratori di gestualità teatrale antica e recitazione, canto madrigalistico, danza storica, musica d’insieme per strumenti rinascimentali e percussioni, tenuti da Alberto Allegrezza, Gloria Banditelli, Maria Elena Mazzella, Gloria Giordano, Mauro Morini e Marco Muzzati.

Fra i poeti ospitati alla corte estense ci fu anche Torquato Tasso, che poi passò otto anni rinchiuso nell’antico dell’Ospedale S. Anna, accanto a dove oggi ha sede il conservatorio ferrarese. La prima rappresentazione assoluta di “Aminta”, il 31 luglio del 1573, fu quindi nell’isoletta di Belvedere, al cospetto del duca Alfonso II e di tutta la corte, mentre una seconda fu allestita nel ducato di Urbino, nel febbraio dell’anno successivo, voluta da Lucrezia d’Este, andata in sposa a Francesco Maria della Rovere, figlio del duca di Urbino e compagno di studi del Tasso.

La favola narra dell’amore non corrisposto che il pastore Aminta prova per la ninfa Silvia. Dafne, la balia di Silvia, e Tirsi, amico di Aminta, cercano di aiutare lo sfortunato amante e organizzano un incontro alla fonte dove si bagna di solito la giovane ninfa. Proprio quel giorno Silvia viene aggredita alla fonte da un satiro; Aminta interviene e la salva, ma lei, ingrata, scappa senza ringraziarlo. È l’altra ninfa Nerina a trovare poi il velo di Silvia insanguinato e a raccontare ad Aminta che è stata sbranata dai lupi. Addolorato per la presunta morte dell’amata, il giovane pastore decide di suicidarsi gettandosi da una rupe. Silvia, che in realtà non è morta, ricevuta la notizia del suicidio di Aminta, è pervasa dalla pietà e si rende conto di amarlo. Aminta però è ancora vivo, perché i cespugli hanno attutito la caduta, e riprende i sensi: la vicenda si conclude con il coronamento dell’amore tra i due. Nell’allestimento di ieri sera l’innamoratissimo e disperato Aminta è stato interpretato da Lars Magnus Hvass Pujol, mentre i panni della superba e virginea Silvia sono stati vestiti da Giulia Mattiello; Federico Fioresi è stato Tirsi e Roberto Calidori Amore, travestito da pastore. Su tutti ha spiccato la simpaticissima e ironica Dafne di Alberto Allegrezza, che ha curato anche la regia della serata, capace di regalare al personaggio una sfumatura gaudente, ma mai volgare.

Com’era tradizione nel teatro cinquecentesco, Tasso inserì nel testo ‘intermedi’ danzati e cantati, la cui musica è purtroppo andata perduta. Per questo nell’allestimento dell’altra sera si è scelto di inserire madrigali composti da musicisti anch’essi protetti del duca D’Este, nel tentativo di ricreare il clima di fervore artistico che si respirava nella Ferrara della seconda metà del Cinquecento. Ludovico Agostini (Ferrara 1534-1590) è l’autore del madrigale dedicatorio, i cui versi – ancora una volta del Tasso – hanno esaltato le virtù militari di Alfonso II, mentre Luzzasco Luzzaschi (Ferrara 1545-1607) ha composto il madrigale a cinque voci per Renata di Francia, la madre del duca. Fra le esecuzioni, anche la “Gagliarda del Principe” del celebre Gesualdo da Venosa, forse il più importante madrigalista dell’epoca. A chiudere la rappresentazione è stata una danza corale sulla musica di Giovanni Giacomo Gastoldi (Caravaggio 1555-Milano 1609), nella quale si inneggia alla ritrovata età dell’oro. Le coreografie sono state ricostruite seguendo il trattato di Fabrizio Caroso “Il Ballarino” (1581), anch’esso contenente alcune danze dedicate alle dame della casa d’Este.

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