Economia e Lavoro
16 Marzo 2015
Per i lavoratori non subordinati è sempre più difficile denunciare e far emergere le vessazioni subite

Il male del mobbing per precari e partite Iva

di Redazione | 3 min

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Si narra che Maria Antonietta, vedendo il popolo in rivolta perché affamato, abbia esclamato: “Insomma, se non hanno più pane, che mangino brioche!”. Sembra difatti che anche il mobbing sia un privilegio o, meglio, stia diventando un privilegio per soli lavoratori subordinati. Nell’era del libero professionismo, delle partite iva e dei giovani pagati in voucher, a parlare di “demansionamento lavorativo”, “angherie ed emarginazione”, di “aggressioni fisiche e verbali”, di “vessazioni” e di tutte le altre fattispecie in cui si esplica il mobbing, sembra quasi di scrutare dalla luna un universo lontano.

Le statistiche parlano di una presenza di casi di mobbing del 5% in Italia, a rispetto di altri paesi d’Europa in cui si tocca anche il 10% di lavoratori interessati. Nella penisola, per le donne, i casi maggiori di vessazioni sul luogo di lavoro sono dovuti a problemi di salute, e soprattutto connessi alla maternità. Cosa sia il mobbing e cosa comporti per le donne che lo subiscono, ne han discusso la giuslavorista Silvia Borelli e lo psicoterapeuta esperto di mobbing Stefano Formaggi, durante il terzo incontro del ciclo “Non è un paese per donne”, promosso da Simona Gautieri e Sara Macchi in biblioteca Ariostea.

Dal punto di vista clinico e medico legale, si tratta di una violenza psicofisica e mentale con conseguenze per la salute e, per avere valenza giuridica, deve durare più di sei mesi, con fatti piuttosto frequenti e continuativi durante il lavoro. Ci sono anche casi di mobbing strategico, utilizzato per eliminare i lavoratori in sovrannumero quando si procede alla fusione di più aziende o alla privatizzazione. Su questa sofferenza sul luogo di lavoro, l’Inail già dal 2003 ha preso posizione con una circolare, che vede come danni alla salute quelli provocati dalla marginalizzazione e dallo svuotamento delle mansioni, ovvero: da un lato, il disturbo dell’adattamento, la depressione, l’ansia e i disturbi del comportamento (come l’alterazione nell’alimentazione); dall’altro il disturbo post traumatico da stress, di chi subisce minacce fisiche, fino ad arrivare a una fobia nel posto di lavoro.

“Il problema maggiore del mobbing – spiega Formaggi – è che le prove per far causa, in Italia, sono a carico del ricorrente”. Servono dunque documenti di prova e testimonianze dei colleghi “che spesso invece assistono ai casi di mobbing in maniera passiva, intimoriti di fare stessa fine”. Se per il dipendente denunciare l’azienda è un percorso tutto in salita, per difendersi è utile produrre certificati medici attraverso le risorse del servizio sanitario, parte terza nella constatazione del danno.

“Nel caso di vessazioni legate alla maternità – sottolinea Silvia Borelli –, in Italia conviene applicare la normativa sulla discriminazione di genere, nella quale è sufficiente trovare il nesso di causalità tra il trattamento svantaggioso e la discriminazione, mentre non è necessario provare l’intento persecutorio come nel mobbing. E anche nel caso di differenze di trattamento lavorativo, a parità di mansioni e livello, il diritto antidiscriminatorio è lo strumento più importante nel contrasto a questi comportamenti”.

Fin qui il dato teorico. Nella pratica, spiega la giuslavorista, chi ha un lavoro flessibile o un contratto a termine non denuncerà mai un caso di mobbing. “Purtroppo – spiega – la precarietà non consente l’emersione di un ragionamento verso la tutela, e anche legislativamente stiamo andando nella direzione opposta, tanto che tutte le norme sul mobbing, di fatto, sono incentrate solo su casi di lavoro subordinato”. “Tra legge Fornero e Jobs act, non è di certo un periodo buono per i rapporti lavorativi”, conclude Stefano Formaggi.

E al popolo delle partite iva? Le solite brioche.

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