Recensioni
17 Febbraio 2015
Dipinti dai depositi della Pinacoteca Nazionale di Bologna

Alla maniera di Guido Reni

di Redazione | 5 min

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Guido Reni (Bologna 1575 – 1642) entra nell’ambito dei Carracci dopo un primo allunato presso Domenico Calvaert (Anversa, Belgio 1540 – Bologna, 1619), fiammingo di nascita ma bolognese di adozione, un pittore ancora legato al manierismo. Intorno al 1600 il Reni è a Roma mentre Annibale Carracci lavora alla Galleria Farnese e Caravaggio terminato il ciclo di San Luigi dei Francesi, sta per iniziare le tele di Santa Maria del Popolo. Ha così modo di maturarsi, confrontando le due diverse personalità, di ognuna delle quali è debitore nella ricerca della propria via.

A Roma il Reni soggiorna (salvo qualche viaggio a Bologna) per vari anni, conquistandosi una posizione di primo piano, finchè, nel 1614, torna definitivamente in patria dove, universalmente ammirato, resta fino alla morte.

La grande fama di Guido Reni, durata inalterata non soltanto in Italia, ma anche in Francia, come modello di perfezione classica fino a tutto il neoclassicismo, ha subito un declino dal romanticismo in poi, quando si è visto, in quella perfezione, un edonismo esteriore e, nei suoi quadri religiosi, un pietismo controriformistico edificante. Ovviamente nel secolo scorso e in questi ultimi decenni la sua pittura è stata riconosciuta criticamente per la sua grandezza e per il suo straordinario valore.

Il dilemma del Reni consiste nel “desiderio, in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana” (Longhi). Egli torna all’ideale di bellezza assoluta del rinascimento, che, a sua volta, ha la sua più lontana origine non nel classicismo greco ma quello romano, e che permette anche nel Seicento, trovando la sua formulazione nelle parole del teorico Giovan Pietro Bellori, il quale, nella seconda metà del secolo, scriverà che, essendo gli oggetti creati dalla natura sempre imperfetti, “li nobili pittori e scultori – si formano – nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando emendano la Natura” (1672).

Nella scuola di Guido Reni passarono secondo il Malvasia oltre duecento allievi italiani e stranieri, due generazioni di pittori che si sono misurati con gli insegnamenti e lo stile del grande maestro.

La Pinacoteca di Bologna ha voluto realizzare a Palazzo Pepoli Campogrande fino al 6 aprile 2015 la mostra Alla maniera di Guido Reni, a cura di Armanda Pellicciari.

L’evento consente di mettere a confronto un cospicuo gruppo di dipinti di notevole qualità, custoditi nei depositi della Pinacoteca Nazionale di Bologna, che fino ad ora sono stati esposti per periodi limitati, solo in occasione di mostre temporanee e mai tutti insieme. Il dialogo tra le opere realizzate dagli artisti formati alla scuola reniana, permette di cogliere la pluralità di differenti registri con cui gli allievi, educati nel mito del “divino” Guido, ne interpretarono la lezione, diffondendola in Italia e in Europa.

“Fu tanta e tale insomma la fama e ‘l grido ch’egli ebbe, che parve, che a suoi tempi non fosse stimato buon pittore chi d’essere stato suo scolare non si fosse potuto pregiare; facendogli gran fortuna il sol nome di un tanto maestro…” C.C. Malvasia.

I 21 dipinti esposti sono opere di artisti attivi tra la prima e la seconda metà del ‘600 che si formarono nell’ambito della scuola di Guido Reni o che furono influenzati dalla sua maniera. Questi artisti divennero interpreti della lezione del classicismo reniano, operando la diffusione di questo gusto nel contesto culturale bolognese, italiano ed europeo.

La mostra si apre con l’intenso ritratto di Guido Reni di Simone Cantarini, l’unica opera permanentemente esposta nelle sale della Pinacoteca Nazionale di Bologna, il percorso espositivo si articola quindi in cinque sezioni.

Le prime due sezioni illustrano il metodo di insegnamento praticato all’interno della scuola reniana che si fondava sulla pratica del disegno dal vero e da modelli grafici del maestro, in sintonia con l’insegnamento dei Carracci e le teorie dell’Agucchi e del Bellori. In queste sezioni sono esposte opere di Giovan Giacomo Sementi e di Francesco Gessi che appartengono alla prima generazione degli allievi di Reni.

La terza e la quinta sezione presentano dipinti di artisti che frequentarono la bottega del Reni negli anni Trenta, quando la fama dell’artista, in seguito alla commissione di opere da parte della corte spagnola, francese e inglese raggiunse un apice europeo.

È in questo periodo che approdarono alla sua bottega artisti provenienti da tutte le parti d’Italia: dalle Marche Simone Cantarini, dalla Lombardia Carlo e Pier Francesco Cittadini, da Napoli Nunzio Rossi per citarne solo alcuni, ma anche pittori stranieri quali i francesi Pietro Lauri e Jean Boulanger e il fiammingo Desubleo, mentre tra i pittori bolognesi che frequentarono la bottega del maestro in questo periodo, sono da ricordare Giovan Battista Bolognini, Lorenzo Lolli e Giovan Andrea Sirani.

“Fra questi il più notevole e manifesto era poi sempre la moltitudine degli scolari, che come di tutti i paesi, formavano con la varietà delle lingue e de’ costumi un curioso e dilettevole compendio di tutte le nazioni in una sola casa così con indiscreto miscuglio che terminava per lo più in contrasti, bagordi ed insolenze, tenevano sempre stordito ed impegnato il maestro”

C.C. Malvasia

Un’ultima sezione della mostra è dedicata ai dipinti da stanza che si ispirano in larga misura ai prototipi reniani, raffiguranti soggetti allegorici, mitologici o le eroine della storia antica o biblica che godettero di una larga fortuna presso la committenza del tempo.

“Seguirono la sua maniera, o cercarono accostarvi sempre, non solo suoi allievi, come il Pesarese, il Gessi, il Sementi, il Cagnacci, il Lanfranco e simili, ma que’d’altre città e di contrarie anco scuole, come Andrea Sacchi, lo stesso Cortona, il Maratti ed ogni altro caricando anch’essi sterminatamente di biacca; e come avverte Ridolfi, tutti dopo Tintoretto aver procurato d’imitare la sua forza ed energia, così tutti dopo Guido, han cercato la sua tenerezza…”

C.C. Malvasia

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