Eventi e cultura
2 Novembre 2014
Il monologo di Zimm interpretato da Marco Sgarbi a Ferrara Off

L’autodifesa di Marx a Soho: “Non sono marxista”

di Redazione | 3 min

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“Siete stati bravi a venire! Non vi hanno dissuaso tutti quegli idioti che dicono che Marx è morto? Beh, lo sono e non lo sono: ecco un po’ di dialettica per voi”, così un redivivo Karl Marx (alias Marco Sgarbi) si complimenta con il pubblico, mentre posa i volumi e prepara la scaletta che diventerà il podio per il suo discorso di riabilitazione, come se ci trovassimo nel bel mezzo dello Speakers Corner di Hide Park, invece che nella affollata sala del Ferrara Off.

“Perché sono tornato? Per riabilitare il mio nome!”, dichiara il filosofo storicista, che sottolinea “Mettetevi bene in testa una cosa: non sono un marxista!”. Anzi, come ha sempre detto con Jenny, il suo maggior timore non era che la rivoluzione non avvenisse, ma che fosse capeggiata “da adulatori privi di potere, che una volta raggiunto diventano presuntuosi e dogmatici, che parlano in nome del proletariato prendendosi la briga di dire al mondo le mie idee, mettendo su un nuovo clero, gerarchie, scomuniche, polizie, inquisizione, e tutto questo in nome del comunismo, ritardando così il comunismo della libertà e dividendo il mondo tra imperi capitalisti e imperi comunisti, facendo a pezzi il nostro bellissimo sogno. Ci vorranno non una ma due, tre rivoluzioni prima di rimettere le cose a posto”.

Sono queste le premesse di Marx a Soho, il testo scritto negli anni ’90 dallo storico statunitense Howard Zinn con lo scopo di “salvare Marx non solo dagli pseudosocialisti che avevano instaurato regimi repressivi in varie parti del mondo, ma anche dagli autori e dai politici occidentali che ora gongolavano per il trionfo del capitalismo”. Non è usuale che uno storico faccia parlare direttamente un personaggio del passato, ma Zinn era un anticonformista: cresciuto nell’America della Grande Depressione leggendo Steinbeck, attivista del Movimento per i Diritti Civili e del Movimento Pacifista, ma soprattutto autore della prima storia del popolo americano narrata secondo la prospettiva di chi ne era sempre stato escluso, i nativi, gli schiavi, i lavoratori, le donne.

Non può essere dunque una sorpresa un testo che cerchi di portare sotto i riflettori tutta l’umanità di Marx, non solo il teorico, il filosofo di economia politica, ma il rivoluzionario che si appassiona ai moti del 1848 in Europa, alla lotta dell’Irlanda contro l’Inghilterra, che gioisce dell’esperienza della Comune di Parigi perché vi vede la realizzazione concreta del suo sogno socialista, che si indigna nel vedere quotidianamente “il decadimento” morale e materiale cui sono sottoposti gli uomini, nella Londra della sua epoca come nella New York odierna. “Vi siete chiesti come mai ci sia bisogno di dichiararmi morto così tante volte?”. Le ingiustizie, le disuguaglianze, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, allora come oggi: “Il capitalismo ha trionfato, ma su chi ha trionfato?”, chiede provocatoriamente Marx. Ma l’umanità emerge anche dai tanti piccoli stralci di vita privata narrati con nostalgia: la vita da esule, le privazioni, la morte di tre dei suoi sei figli, e soprattutto il rapporto con sua moglie Jenny, compagna di vita e continuo stimolo per il suo lavoro. “Vorrei che poteste conoscere Jenny”, confessa Marx, “credo che Jenny fosse un essere umano molto migliore di me”.

L’umanità è dunque il fulcro di questo testo: la riscoperta dell’uomo dietro al personaggio storico e la riflessione sulle condizioni di vita passate e presenti del genere umano. Anche per questo al centro dell’allestimento di Marco Sgarbi e Giulio Costa ci sono l’attore, la sua presenza, e il testo tanto ironico quanto drammaticamente attuale.

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