Cronaca
4 Ottobre 2014
Giles Duley saltò su una mina. “Dopo 18 mesi tornai in Afghanistan”

Il fotoreporter che perse tre arti per raccontare la verità

di Redazione | 4 min

unnamed1di Anja Rossi

Quanto vale la testimonianza fotografica oggi? Per Giles Duley, di certo, non ha prezzo. Il fotografo britannico, infatti, nel 2011 è stato vittima di una mina durante un reportage in Afghanistan, perdendo tre arti. Da allora la sua battaglia per testimoniare la guerra non ha più avuto limiti.

Giles Duley, accolto dal pubblico del festival di Internazionale, si è confrontato sul tema della testimonianza di guerra e sul valore del fotogiornalismo con un altro importante fotografo dei nostri tempi, Francesco Zizola, e con il giornalista Giovanni Porzio.

Duley, all’inizio dell’incontro, spiega come la sua sia stata una storia professionale assai diversa da altri reporter di guerra. “Avevo 18 anni quando ho avuto un incidente d’auto. In quel periodo ero immobile in ospedale e il mio padrino mi aveva lasciato un libro di Don McCullin e una macchina fotografica. È così che in ospedale ho iniziato a leggere questo libro di guerra e ho deciso che era quello che volevo fare. Ho iniziato a giocherellare con la fotografia dal letto di ospedale. Fotografavo chiunque venisse a trovarmi, principalmente le infermiere”, scherza il fotografo.

La sua carriera inizia con la fotografia di moda. “Per 10 anni ho continuato nel settore della moda e nel settore della musica, ma una vocina dentro mi diceva che dovevo fare altro. Nel tempo ero diventato molto cinico rispetto alla fotografia patinata, soprattutto per come si ritraeva la donna nell’abito della moda. Un giorno, dopo aver discusso se era meglio che la modella avesse il top o meno, ho mollato. Ho completamente abbandonato la fotografia e a trent’anni sono diventato un operatore sanitario; mi occupavo di un ragazzo autistico. Nessuno capiva questo mio cambiamento, ma io per la prima volta ero davvero felice, perché ciò che facevo incideva nella vita di un’altra persona. Ho capito che con Nick, il ragazzo autistico, avrei raccontato la sua storia tramite la fotografia. Mostrando poi queste foto ai medici, loro capivano meglio ciò che gli accadeva e riuscivano a seguirlo meglio, riuscivo a dare una voce a una persona che non l’aveva. È stata un’illuminazione”.

Nasce così la voglia e la necessità di Duley di iniziare a viaggiare e raccontare paesi come l’Angola o il Sudan, fino ad arrivare all’Afghanistan. “Volevo raccontare storie che non sono quelle che raccontano di solito i giornali. Infatti non credo di essere un fotografo, sono più un narratore”. Giles Duley è stato in Afghanistan per Emergency e qui è stato vittima di una mina che stava per portarlo alla morte. “Ho passato due mesi in terapia intensiva, i medici dicevano che non ce l’avrei fatta. Ho subito 37 interventi chirurgici, ma sono sopravvissuto. Dopo 18 mesi sono tornato in Afghanistan e ho ripreso il mio lavoro. Come dissi a mia sorella, ‘I’m still a photographer’, sono ancora un fotografo. Anzi, ora credo di esserlo ancora più di prima”.

unnamedDuley e Zizola vengono poi interrogati su che cosa significhi fotografare oggi e se sia possibile continuare a raccontare la guerra senza rischiare concretamente la vita. “Ero al confine con la Siria – spiega Giles Duley -quando il primo giornalista è stato decapitato ed è una cosa che mi ha colpito profondamente, perché si ha avuto subito l’idea di quanto le cose siano cambiate. Vent’anni fa i giornalisti erano rispettati da entrambe le parti del conflitto, ma negli ultimi decenni è sempre più facile produrre e pubblicare proprie news. Ora si è andati oltre, si è diventati veri e propri obiettivi, e questo è diventato più rischioso. D’altra parte, in questo modo, diventa ancora più necessario il nostro lavoro. Non provo né odio né rabbia per quello che mi è successo, perché nella mia mente non mi sento di essere stato ferito da un talebano o da una mina, ma dall’ignoranza. E l’unico modo in cui posso combattere questa violenza è attraverso la mia macchina fotografica”.

Per Francesco Zizola la questione di base è che “il giornalista ora è visto sempre di più come portavoce di una delle due parti in conflitto, portavoce interessato. Questo comporta dei rischi e delle conseguenze gravissimi”. Il giornalismo a seguito delle truppe, per il fotografo italiano, può comportare il venir meno del rispetto per il lavoro e a farne le conseguenze è l’indipendenza del giornalista. Zizola conclude l’incontro criticando anche una certa mancanza di educazione alle nuove tecnologie e ai nuovi linguaggi. “È necessaria una nuova era di rieducazione ai linguaggi e all’immagine, partendo innanzitutto dalla scuola”.

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