“Quella cosa che non si può dimenticare non può essere l’unica identificazione dell’Ebraismo, ignorando tutto ciò che precede e che prescinde”. Discorso non scontato quello che Enrico Mentana ha tenuto al Chiostro di San Paolo ricevendo il Premio Pardes alla carriera nell’ambito della Festa del libro ebraico in Italia. Sostanzialmente un invito a non far coincidere questa fede e questa storia plurimillenarie con quanto accaduto in alcuni stati d’Europa tra il 1933 e il 1945.
“Troppo spesso, in quella coazione a ricordare si incrociano nemici degli Ebrei ed Ebrei che non vogliono voltar pagina”, ha continuato il giornalista, ben attento a specificare che queste due categorie non vanno, nemmeno per un momento, messe sullo stesso piano. “Da figlio di madre ebrea, e nonostante questo battezzato, mi ritengo molto più ebreo di tanti ebrei che ho conosciuto, e anche per questo spero che l’enorme filone dell’Ebraismo superi il trauma del Novecento – ha detto ancora Mentana –. So cos’è l’identità ma capisco sia il desiderio di voltar pagina sia il fatto che in alcuni ambienti ebraici si sia cominciato a parlare di Shoah solo dopo il caso Eichmann”.
Il Pardes alla saggistica è andato invece a Gioele Dix, che quest’anno ha pubblicato con Mondandori Quando tutto questo sarà finito: storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali. “Per farlo ho dovuto stanare mio padre – ha raccontato –: si tende a dimenticare i fatti spiacevoli, e tra gli Ebrei è anche diffusa una convinzione secondo cui i guai possono capitare. Il libro è ambientato fra il ’38 e il ’45 e racconta di mio nonno, di mio padre e anche di me, che siamo ebrei in Italia, del nostro legame fortunato con un paese che abbiamo sempre amato. A dire la verità, in gioventù mio nonno ebreo è stato anche fascista”.
Quello alla narrativa è andato infine alla scrittrice Lizzie Doron.
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