Ne ho sentito parlare per mesi e da subito ho iniziato a fremere. Curiosità, ma anche terrore.
E un dubbio ciclopico. Walter Veltroni da politico è stato il principale fautore del Pd (da qui il nomignolo che gli affibbiai “Water” Veltroni, cioè il cesso dentro cui hanno buttato il Pci), ovvero la lapide di tristissimo marmo grigio sulla sepoltura della sinistra italiana. Se le Br ne scavarono la fossa e Achille Occhetto ne chiuse la bara, il Pd fu la pietra sepolcrale sul concetto di Sinistra italiana.
Sinistra italiana che trovò il suo maggiore lustro, il suo picco di consensi, il suo apice storico fra il 1972 e il 1984, “Quando c’era Berlinguer”, appunto. Da qui il dubbio da togliermi il sonno quanto una pinta di caffè nero bollente: potrà il Walter Veltroni regista arrivare dove il Walter Veltroni politico ha cannato clamorosamente e irreparabilmente? La risposta ve la svelo subito: sì. La considerazione successiva è semplicissima: perché stracazzo non hai fatto da subito il regista? (Walter rispondimi pure in privato su wathsapp, ore pasti).
Veltroni ha compiuto un’opera doverosa che va a colmare esaustivamente un buco culturale e mnemonico evidenziato dalle prime sequenze del docu-film: ragazzi fra i venti e i trent’anni inebetiti e incapaci di rispondere alla domanda “conosci Enrico Berlinguer?” che tentano di dare risposte improbabili: “un francese”, “un cantante”, “quello della bomba”, “il capo dell’estrema destra”, “un giudice”. E via di tragicommedia.
Quando esce un film, un documentario, un libro, qualunque cosa, mi chiedo “se ne sentiva proprio il bisogno?”. Spesso la risposta che mi do è un no secco, in questo caso è un convinto, assoluto e rotondo sì. Veltroni si dimostra un regista dal tocco sapiente da subito. Me ne accorgo perché mai in vita mia sono scoppiato a piangere al settimo-ottavo minuto di un film. Lacrime pesanti come pietre, lacrime come pugni al presente sferrati dal sentirsi fuori posto e fuori tempo. Lacrime nel vedere un milione di persone disperate in modo vero riempire Piazza del Popolo e tutta Roma al funerale di un uomo che quello stesso giorno coincideva con il funerale di una speranza.
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una persona per bene” recita Giorgio Gaber nel suo celebre monologo, con la consueta capacità inarrivabile di leggere i tempi con lucidità. Il lavoro più oneroso di Veltroni non è stato questo: che Berlinguer sia stato l’ultimo a vivere la politica come missione e non come professione è lampante, come rilucente era la sua integrità umana e morale. Veltroni si è superato nell’evidenziare come, quando e perché il più grande leader della sinistra italiana sia riuscito a portare un partito dal nome inquietante (che riconduceva alle dittature est europee) ad essere scelto come emanazione politica di una speranza da un italiano su tre (al suo apice). Prendendo le distanze dall’Unione Sovietica e perseguendo la coesistenza possibile fra Comunismo e democrazia. Arrivare al potere con la forza delle idee in luogo della repressione. Infatti stava in culo a tutto l’est e in Bulgaria tentarono di farlo fuori. Aveva capito il pericolo e la truffa storico-ideologica rappresentati dal “fascismo di rosso vestito”.
Aveva messo i principi del Comunismo vero al servizio del popolo più bisognoso, non il contrario. Con Berlinguer in testa si sentivano tutti più sicuri. Anche coloro che rigurgitavano solo alla parola comunismo, perché lui tutelava anche loro. Aveva capito in anticipo la pericolosità del modus operandi delle Brigate Rosse e ne prese le distanze quando, mosse abilmente nell’ombra da organi deviati dello Stato e vertici della stessa Democrazia Cristiana, rapirono Moro, poi sacrificato da Cossiga e Andreotti sull’altare della ragion di Stato al fine di demonizzare la Sinistra ed eliminare un democristiano scomodo, che dialogava con il Pci, in un sol colpo.
E poi mi fermo che sennò precipito nella retorica e guai al mondo. E poi mi fermo che sennò m’incazzo e sfascio il pc (che è sempre meglio che aver sfasciato il Pci).
Quindi c’è tutto: ricostruzione storica attendibile ed obiettiva, profilo umano non retorico né agiografico, momenti di grande tecnica registica (soprattutto all’inizio), completezza di persone chiamate in causa a testimoniare (anche se Jovanotti proprio poteva risparmiarselo), bella colonna sonora con Danilo Rea e un brano inedito di Gino Paoli.
Io sono uno sporco e pericoloso Comunista e quindi non faccio testo, ma mi permetto di caldeggiare la visione di questo film a chiunque, a prescindere dall’appartenenza politica. Nessuno diventerà comunista dopo i titoli di coda, state sereni. Ma tutti potranno comprendere che il ritornello delle ideologie superate è una puttanata colossale: le ideologie non sono roba da antiquari, nostalgici e robivecchi, semplicemente non hanno più emanazioni partitiche. Chi cocciutamente ne è conscio come il sottoscritto è come un uomo a cui hanno strappato i vestiti e continua a camminare nudo additato da tutti.
E soprattutto tutti quelli che avranno il coraggio intellettuale di guardarlo, forse, si renderanno conto di quanto sia ridicolo entusiasmarsi per Matteo Renzi e Beppe Grillo e di quanto sia stato folle affidarsi per vent’anni a Berlusconi.
Questo film è per voi, che avete messo chinotto sgasato nelle bottiglie di Chianti.
Voi che pretendete che io me lo trangugi vorace e che ne decanti le qualità organolettiche.
Non berrò mai dalle vostre bottiglie.
E continuerò a vagare nudo.
Additato da tutti.
Ma a testa alta.