Cronaca
14 Febbraio 2014
Entrò nel sistema informatico della polizia in cerca di informazioni sui parenti e su una prostituta

Poliziotto condannato per un “favore” all’amica

di Ruggero Veronese | 4 min

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admin-ajax (10)Aveva eseguito numerosi accessi allo Sdi, la rete informatica utilizzata dalle forze dell’ordine per coordinare le operazioni, per controllare se vi fossero indagini in corso o segnalazioni verso i propri parenti e conoscenti. Fino a quando un suo sms sospetto indirizzato a una prostituta coinvolta in un’indagine non ha insospettito questura e prefettura, che lo hanno denunciato per accesso abusivo un sistema telematico e rivelazione di atti d’ufficio. È nato così il processo che ieri pomeriggio (13 febbraio) ha portato alla condanna a 7 mesi di reclusione e due anni di interdizione dai pubblici uffici (con sospensione condizionale della pena) di un agente di polizia  in forza alla questura di FerrarA. Al suo fianco al banco degli imputati anche la prostituta a cui era indirizzato il messaggio da cui prese il via l’indagine, accusata di aver istigato il poliziotto a rivelare i segreti della questura ma assolta per non aver commesso il fatto.

La vicenda prende il via nel novembre 2009, quando una prostituta di nazionalità rumena, sentendosi perseguitata dai continui controlli delle forze dell’ordine, chiede alla sua amica e coinquilina di informarsi dai poliziotti di sua conoscenza se è in corso qualche indagine a suo carico. In questo periodo la squadra mobile sta infatti indagando sull’omicidio di Paola Burci, la giovane rumena che – si scoprirà in seguito – fu barbaramente uccisa da Sergio Benazzo e dell’ex fidanzata Gianina Pistroescu. Per questo motivo gli agenti si ritrovano spesso a scortare in questura e interrogare diverse lucciole provenienti dall’Europa dell’Est, in cerca di quegli elementi che consentiranno loro di identificare e arrestare i veri responsabili del delitto.

Ma l’amica dell’imputata teme di essere finita nel mirino della procura, dal momento che a suo carico pende anche un foglio di via obbligatorio emesso dalla questura di Padova. E chiede alla coinquilina di sfruttare i contatti nella polizia allacciati durante i numerosi controlli di routine per far luce sulla sua reale posizione. L’agente viene quindi contattato dalla ragazza, che chiede di cercare informazioni riguardo a “una cugina”, e poco tempo dopo le invia un messaggio tranquillizzante in cui afferma che “non c’è nulla di rilevante” a carico della ragazza. Un sms che viene intercettato durante le indagini del caso Burci e finisce direttamente in procura. Viene quindi a galla grazie agli archivi informatici che, durante quell’inverno, l’agente aveva eseguito numerosi accessi allo Sdi al di fuori del proprio orario di servizio, per verificare anche la posizione di alcuni parenti residenti a Taranto.

Durante il processo la procura doveva quindi provare due diverse ipotesi di reato per il poliziotto: se avesse effettivamente effettuato gli accessi abusivi al sistema informatico e se avesse davvero divulgato il contenuto degli atti alla conoscente. Solo la prima accusa ha trovato fondamento per il tribunale di Ferrara: secondo l’avvocato Guido Pollicoro, difensore dell’agente, il messaggio inviato alla prostituta non era tale da divulgare informazioni relative alle indagini e la donna avrebbe comunque ricevuto la stessa risposta, a prescindere dalla verifica dell’agente. E l’agente in effetti non le rivelò che il nome dell’amica compariva nell’ambito di un’indagine per sfruttamento della prostituzione. Per quanto riguarda l’amica, accusata di aver istigato il poliziotto a commettere il reato, il suo avvocato difensore Enrico Scarazzati ha sottolineato come la donna non potesse essere cosciente di come il poliziotto avrebbe cercato informazioni, né delle restrizioni legali dello Sdi a cui sono sottoposti gli agenti. Non potendo immaginare che dalla propria richiesta potesse scaturire un illecito viene quindi a mancare il “dolo” e, di conseguenza, anche il reato. Non risulta e sembrerebbe escluso (sia dal tono degli sms che dalle successive indagini) che tra i due imputati vi fossero rapporti più intimi rispetto a quanto emerso nel processo.

Le tesi degli avvocati hanno convinto il tribunale di Ferrara, ma non giustificano comunque gli accessi effettivamente compiuti dall’imputato per verificare le informazioni sulla ragazza e sui propri parenti. Da qui la condanna a sette mesi per l’agente, dopo che la procura aveva chiesto pene di due anni per l’imputato e di un anno per la lucciola.

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