Cronaca
21 Settembre 2013
Dopo 10 anni il tribunale d’appello lo riconosce innocente

Condannato per abusi sulla figlia, ora la verità

di Marco Zavagli | 3 min

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L’avvocato Ciriaco Minichiello

L’avvocato Ciriaco Minichiello

Per dieci anni tutti han creduto che avesse abusato della figlia. E lui ha vissuto con l’infamia di una condanna per violenza sessuale aggravata, la perdita della patria potestà, la privazione dell’affetto della persona cui teneva di più.

Era il 16 dicembre 2003 quando il gup Silvia Migliori condannò in rito abbreviato R.T., operaio metalmeccanico di Ferrara a quattro anni e mezzo (più il pagamento delle spese processuali, l’interdizione in perpetuo dalla patria potestà, il risarcimento della parte civile e una provvisionale di 15mila euro) per fatti avvenuti del 1993 al 1998, quando la figlia aveva dai 5 ai 10 anni. “Abusando della propria autorità paterna costringeva con violenza la minore a subire atti sessuali” recitava il capo di imputazione.

Solo ora, dopo dieci anni la Corte d’Appello di Bologna ha capovolto la sentenza di primo grado dichiarando che il fatto non sussiste ed assolvendo con formula piena l’imputato.

All’epoca delle prime accuse l’uomo si era appena separato dalla moglie. La figlia va a vivere con la madre e nei fine settimana si reca dal padre con il quale aveva sempre avuto ottimi rapporti. Poi, di punto in bianco, le infamanti accuse. La bambina, seguita da una psicologa per il trauma della separazione dei genitori, scrive una lettera in cui accusa l’uomo di averla violentata in più occasioni.

Parte la denuncia. E il processo. In aula la minore ripete le accuse, “ma rende dichiarazioni contraddittorie sul numero di episodi di violenza subiti, sul tempo e sul luogo dove sarebbero avvenuti”, fa notare l’avvocato difensore Ciriaco Minichiello. Il giudice nomina un perito per stabilire se la piccola sia credibile o meno. La psicologa opta per la prima ipotesi. Anche il consulente medico parla di “lesioni compatibili con i fatti”, anche se non riconducibili con certezza a un determinato autore.

Quanto basta per convincere il giudice ad emettere la sentenza di colpevolezza.

Nel frattempo, siamo sempre nel 2003, va avanti un altro procedimento penale. Che questa volta vede sotto accusa la madre (in seguito deceduta) e la zia. Un procedimento nato dalle dichiarazioni del cuginetto della piccola. Questi, sentito dall’ufficio minori della questura, parla di “giochi erotici perversi” ai quali lui e la bimba erano costretti dalle rispettive madri, che “assistevano compiaciute” aggiunge l’avvocato, che ricorda come “quel processo è finito con una condanna della madre”.

“Quindi il mio assistito – prosegue Minichiello – è stato costretto a subire le accuse false da parte di chi invece era il vero responsabile degli abusi. E non fu creduto”. Poi arriva il giudizio di appello. Qui l’avvocato (presente nonostante l’astensione di questi giorni delle toghe “perché, vista importanza del caso, ho discusso il processo che si sarebbe ugualmente tenuto, dal momento che in Corte d’Appello per i riti camerali non è obbligatoria la partecipazione del difensore e avrei così lasciato da solo il mio assistito”) presenta trenta pagine di motivi validi per ribaltare l’esito del primo grado. Nonostante il procuratore generale Attilio Dardani avesse chiesto la conferma del 4 anni e mezzo, la terza sezione della Corte lo assolve con formula piena. “Finisce un incubo”, sono state le parole del padre. Che ora, commenta il suo avvocato, “dovrà trovare la forza di rifarsi una vita e uscire da questa storia che lo ha segnato e gli ha distrutto il rapporto con la persona che amava di più. E nessuno potrà mai risarcirlo per questo”.

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