Eventi e cultura
19 Agosto 2013
Nel suo ultimo libro Cazzola si interroga sull’esistenza dell’aedo

L’enigma di Omero

di Redazione | 9 min

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omero1952. Scuola media Dante Alighieri, sede di Via Bersaglieri del Po, sezione X, una sezione sperimentale, preludio alla riforma della scuola media. Stiamo per entrare in classe. Il bidello Marani c’invita con la scopa in mano. Le due fazioni si guardano in cagnesco- A mezza voce ci sussurriamo ferocemente: “Tieni per Bartali o per Coppi?”. Poi la prova del nove “Tieni per Achille o per Ettore?” Decisivo. Già da anni avevo scelto Bartali, già da anni il nonno che mi portava alla domenica al cimitero raccontandomi l’Inferno di Dante e l’Iliade pretendeva che tifassi per Achille, lui con un figlio nella carriera militare. Nulla da fare. Io ero per Ettore. Certo una fugace passione per Ulisse; ma era troppo furbo, troppo di tutto. Mi piaceva solamente perché rifiutava il confronto e la lotta fisica giocando d’astuzia. La cosa mi interessava proprio perché anch’io provavo terrore per il confronto fisico finché lo vinsi battendomi con il ciccione di classe che mi aveva sfidato a singolar tenzone.

Nel frattempo Barbanti arrivò canticchiando Papaveri e Papere con noi che facevamo da coro. S’interruppe e disse con fare saputo “ma è un plagio!” Cos’era un plagio? Subito si pensò a una parola sporca poi mi mandarono avanti a chiederlo alla professoressa. Era solo una copiatura. I compagni sapendo che ero lo studiosetto del gruppo mi misero alla prova. Avevano trovato nella Odissea la parola “testicoli”, le “vergogne” che Ulisse nasconde di fronte a Nausicaa nel VI libro oppure quelli che nel supplizio del capraio traditore Melanzio nel XXII vengono gettate ai cani. Lestofantemente mi mandarono a chiedere spiegazioni alla mia adorata prof. Gillenzoni. Avevo 13 anni ma di quella parola non conoscevo  altro che la versione vulgata. Sapevo, sapevamo però chi erano  Aiace , Briseide, Patroclo, Priamo e gli Argivi. O Ulisse, Telemaco Argo e Euriclea. A memoria  ci insegnarono “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille/ L’ira funesta che infiniti addusse/ Lutti agli Achei” e poi “Lo maggior corno della fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando” E sempre di Ulisse si parla…

Per 15 anni d’insegnamento dantesco era l’unico brano dell’Ulisse che recitavo a mente a lezione e l’unico che osavo proporre al mio amico Padellina quando improvvisavamo nel suo ristorante di Strada in Chianti le tenzoni dantesche con gli studenti alla fine del corso. Di un Omero conosciuto soprattutto attraverso Dante e più tardi attraverso i miei amatissimi Pindemonte e Monti (Neoclassic oblige!) e soprattutto, a me, che vivevo a Bellosguardo osservando dalle colline il paesaggio fiorentino, l’eternità della e nella Storia evocata da Nicolò Ugo: “E tu, onore di pianti, Ettore, avrai/Ove fia santo e lagrimato il sangue/ Per la patria versato, e finche il Sole/ Risplenderà sulle sciagure umane”.

È sconsigliabile riferire delle opere di chi conosci e stimi come un fratello della mente, di chi da una vita partecipa alle tue ricerche, ai tuoi progetti ma per Claudio questo è possibile, anzi doveroso. Giunse ragazzino a Firenze a inseguire il suo sogno e mi venne idealmente affidato. E che progetti elaborava allo Sdrucciolo Pitti dove abitava con l’amico del cuore Mario Vayra! Affrontò i grandi maestri della tradizione classicistica, si laureò in Letteratura latina e alla richiesta se voleva proseguire la carriera accademica rispose negativamente. Quello che Claudio voleva fare era insegnare ai ragazzi. E per 36 anni lo fece al Liceo Classico Ariosto di Ferrara.

L’enigma di Omero (e non, si badi, l’enigma Omero) si apre con la domanda ovvia ma difficilissima: quella che s’interroga sull’esistenza di Omero. E’ esistito? Chi era? E dei tre che svettano come i protagonisti principali dell’idea dell’Occidente due almeno pongono interrogativi di tal fatta, lui e Shakespeare. Del terzo, Dante, le notizie sono certissime. Il dubbio nasce perché l’aedo è figlio del bel canto, di Calliope: Omero simile a un dio “un prestanome, e del sovrano del mondo”, Zeus. Tra le ipotesi di un Omero realmente esistito e quello che lo vuole come  il prodotto della tradizione aedica Cazzola conclude rifacendosi alla testimonianza della Antologia Palatina che in un epigramma così parla di Omero (E la testimonianza è resa più convincente dalla traduzione che come tutte le altre è opera del critico): ….Se di Febo Apollo/occorre che io riveli chiaramente i responsi prudenti,/il cielo infinito è per te patria, e chi ti ha generato non è una madre mortale: da Calliope tu venisti al mondo, madre tua vera.(p.36). Ecco! Omero come figlio della poesia, anzi della musa più potente, Calliope “la sovrana delle nove abitatrici del monte Elicona” colei che possiede il bel canto. Una scelta modernissima pure nell’autorevolezza della tradizione così come, letti nello spirito del tempo ovvero  nella nostra contemporaneità, sono i due poemi.

Cazzola ripercorre la sistemazione operata dai sapienti della biblioteca di Alessandria che rielaborarono la materia aedica catalogandola in “ventiquattro rotoli di papiro contenenti un canto o un libro, ad ognuno dei quali è assegnata, come segno distintivo una lettera dell’alfabeto greco allora in uso- maiuscola per l’Iliade e minuscola per l’Odissea” (p.41). Ma al critico interessa soprattutto leggere quei racconti non adeguandoli al presente ma presentandoli nel presente. In tal modo i momenti più interessanti diventano quelli in cui l’intraducibilità del termine greco sta a significare la problematicità e la polisemia dei termine. Significativo ad esempio che il titolo del primo poema non corrisponde alla centralità di una parola che poco ha a che fare con Ilio o la guerra di Ilio è l’ira la prima volta scagliata come punizione da Apollo, la seconda consequenziale che è l‘ira di Achille ma anche l’ira del dio. E le vicende da noi conosciute vengono legate da una consequenzialità che riflette tutto lo splendido armamentario di cui erano dotati gli aedi che cantano alle corti o nelle piazze. Bellissimo il commento ad esempio su un luogo, il bagnasciuga del mare, la linea cioè tra “il regno ampio dei venti”, glosserebbe Foscolo e la terra: “Si tratta di uno spazio speciale , unico nella sua tipologia, né terra ferma, né acqua profonda, continuamente percorso dall’onda instancabile che va ivi a morire, e sempre diverso da sé pur nell’apparente monotonia della sua dinamica” (p. 48). Andrebbe riletta una nota del Diario di Pavese al confino quando passeggia sul bagnasciuga, odiando quel mare che “carogna” gli lecca i piedi. Ed è il mare di Ulisse! Questo luogo sancisce il tempo dell’attesa: e cosa c’è, nell’oggi, di più attuale di questo tempo? Ma pure termini per il critico intraducibili come nemesis o aidos. Elena è l’aspetto più evidente di nemesis vendetta forse apparentato alla “vergogna” e allo “sdegno” di aidos. Le molte pagine dedicate a Patroclo e alla sua morte fino alla discesa in guerra di Achille che supera l’ira che lo tiene lontano dalla guerra sono di finissima fattura. Patroclo è restituito nudo all’amico Giace a terra Patroclo, e attorno al cadavere combattono/nudo, infatti le armi le possiede ora Ettore scuotitore dell’elmo ( p.69). E ancora soccorrono racconti e romanzi di Cesare Pavese come Nudismo o Il diavolo sulle colline. Poi Cazzola si cimenta con la descrizione dello scudo di Achille, opera immensa del dio Efesto o Vulcano, primo esempio di una categoria retorica che si è soliti chiamare ecfrasi, vale a dire la descrizione con parole di un’opera d’arte, un procedimento che avrà una fortuna memorabile nel canone occidentale: basti pensare all’uso che ne è stato fatto da Vasari a Roberto Longhi o alle descrizioni di altri scudi quali quello di Enea nel poema di Virgilio o quello di Uliana nell’Orlando Furioso fino a quello, divenuto specchio morale, di Rinaldo tra le braccia di Armida nella Gerusalemme Liberata che riscopre il suo degrado nello scudo che gli presentano Carlo e Ubaldo. Finisce a questo punto l’ira di Achille che indossa le nuove armi, ma ciò che appare di grande suggestione è il commento sull’apparente immortalità di Achille, protetto dallo scudo che altro non rappresenta che una visione del mondo. In realtà questa immortalità non è che una possibilità che la madre divina Teti di  cerca offrire al figlio amato.

Come dimostra Cazzola, “La condizione di Achille[…] è connotata da un’immortalità mancata certificando l’intervento inibitore dell’elemento umano rappresentato dal padre, la separazione ormai irreversibile fra le due nature, divina da un lato e dall’altro umana” (p.86) E Achille umanizzato sfida Ettore, appaga l’ira, l’argomento fondante del poema.

Se dunque l’ira è il logos dell’Iliade, quello del poema successivo è un uomo “dalle molte nature, polytropos il cui nome è Odisseo, nome in cui “vive una pluralità di eroi provenienti da culture diverse pregreche che trovano nella sintesi omerica una vita immortale unitaria, depositata nella memoria dei posteri”(p. 97). Su questo principio interpretativo Cazzola conduce un’indagine di estrema raffinatezza. Sfilano così le descrizioni di Elena egiziaca, nella parte che di solito è chiamata Telemachia, il viaggio del figlio per avere notizie del padre scomparso, appaiono le bacchette magiche di Circe o di Atena, ci si rende conto con stupore come la dieta alimentare sia differenziata non solo tra dei e eroi, ma tra le classi sociali. Si arriva a scoprire l’alterità nel misterioso uso delle navi dei Feaci il cui compito è traghettare ( forse) ai confini della morte chi approda alla loro isola.

La modernità dell’Odissea rispetto al poema precedente è messa in luce da Cazzola con l’adozione delle più sofisticate interpretazioni sempre piegate a un severissimo e impeccabile vaglio filologico. Ma il filo conduttore che dal poema porta fino all’Uysses di Joyce è saldo e attrattivo. E soprattutto la funzione dell’aedo, del canto che rende divini gli uomini. Ulisse che si fa cantore di se stesso e si sdoppia nel narrare le proprie avventure, ordendo una tela che ha “un tessuto polisenso”. Il cieco Demodoco aedo presso la corte dei Feaci, prediletto dalle Muse è tale perché “la divinità concede altra capacità di vedere, quella interiore, foriera di ispirazione poetica” 8p.115).

L’oblio, il grande tema novecentesco, è la linea di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ritornano nel grande episodio di Ulisse evocatore dei morti le grandi costruzioni di un interrogativo che ha sempre affascinato l’uomo, Dante in primis lo rende centrale nella ricerca di sé attraverso Virgilio e la presenza di quell’Omero, evocatore primo di quel regno in cui bisogna discendere o averne cantato per definire chi siamo e cosa vogliamo. E così lo stratagemma del nome che Ulisse dà al Ciclope non è tanto “Nessuno” quanto “Oytis” “un non qualcuno” che è esattamente il soggetto dell’Odissea. Molto ci sarebbe da commentare su questa raffinata proposta di una lettura che si carica di tutti gli interrogativi dell’inquieto secolo breve. Penso alle righe sul cane Argo che si adattano all’amore di Claudio (e mio) per quegli amici dell’uomo.

E “l’enigma” di Omero? Questo non ve lo rivelo. Leggetelo voi alla fine di questo bellissimo libro.

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