Attualità
18 Novembre 2012

Il card. Martini e la Chiesa

di Piero Stefani | 2 min

L’amico Fiorenzo Baratelli si è soffermato sull’uso, probabilmente opportunistico, fatto da Nichi Vendola della figura del card. Martini (leggi). Non è la prima volta che esponenti laici si propongono come «interpreti autorizzati» del pensiero dell’ex arcivescovo di Milano. Su questa linea si erano già collocati Eugenio Scalfari e Ignazio Marino, oltre al Corriere della sera, testata che, nei giorni immediatamente successivi al decesso, ha assunto, in proprio, la gestione dell’immediata eredità pubblica del card. Martini.

La tendenza mostra, per converso, l’insufficienza (o quanto meno le titubanze) di molti settori ecclesiali rispetto a questa memoria. Inoltre la lettura laica trascura alcuni aspetti fondamentali per la comprensione di  Carlo Maria Martini, in primis la sua forte spiritualità ignaziana, espressione della sua appartenenza ai Gesuiti.

Non andrebbe neppure dimenticato un altro aspetto. La nomina di Martini ad arcivescovo di Milano è stata frutto di una decisione sovrana e personale di Giovanni Paolo II. In quell’occasione il papa polacco agì da monarca assoluto (a detta di molti, per evitare che Martini salisse ai vertici della Compagnia di Gesù diventando quello che, in gergo, si chiama «papa nero»). Che la persona incaricata del governo della diocesi ambrosiana sia stata di eccezionale levatura non impedisce di riflettere sulle modalità con cui vengono nominati i vescovi.

Ferrara è prossima all’arrivo di un nuovo arcivescovo. Mons Rabitti, infatti, ha rassegnato da tempo le dimissioni per raggiunti limiti di età. La comunità locale aspetta, passiva, che sia nominato dall’alto il successore. Dati i tempi, è assai improbabile che giunga un vescovo di grande personalità che orienti la propria pastorale secondo le linee tracciate da Martini. Tuttavia anche se così fosse, ciò non annullerebbe l’anacronismo feudale legato all’attuale modo di nominare i vescovi. Ci si consenta un paragone civile: a volte le dittature sono nelle condizioni di attuare scelte più rapide ed efficaci delle democrazie; con tutto ciò, restano pur sempre delle dittature.

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