Paolo Zamboni
Durante una sessione della conferenza internazionale “Hemodyn 2011” tenutasi a Napoli il 13 ottobre alla presenza dei maggiori esperti vascolari, sono stati presentati i primi risultati di tre nuovi studi che confermano l’ipotesi di una possibile correlazione tra la sclerosi multipla (SM) e l’insufficienza venosa cronica cerebro spinale (CCSVI), scoperta nel 2008 dal prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro Malattie Vascolari dell’Università di Ferrara.
Il Dr. Marcello Mancini dell’Istituto di Biostrutture e Bioimmagini del Cnr di Napoli ha presentato i risultati dello studio intitolato “Il tempo di circolazione cerebrale (TDC) nella valutazione delle malattie neurologiche” dove, secondo l’autore, rispetto al gruppo di controllo i pazienti con sclerosi multipla hanno dimostrato un significativo prolungamento del TDC. I risultati suggeriscono che un deflusso compromesso microvascolare o venoso potrebbe essere associato alla sclerosi multipla. La misura del TDC mediante l’ecografia con mezzo di contrasto (CEUS) può dunque essere uno strumento utile per rivelare una disfunzione del microcircolo cerebrale nei pazienti con SM.
Il Dr. Giuseppe Morelli Coppola dell’Ospedale Pellegrini di Napoli ha presentato i risultati dello studio intitolato “CCSVI e SM – risultati preliminari in 350 pazienti trattati” dove, secondo l’autore, i risultati preliminari dimostrano un significativo miglioramento della qualità della vita, cognitivi e della stanchezza, confermando i dati pubblicati nel 2009 dal gruppo di Zamboni-Galeotti-Salvi.
Il Dr. Renato Regine dell’Ospedale di Pozzuoli ha presentato risultati dello studio intitolato “CCSVI, trattamento con angioplastica: il nostro protocollo ed i risultati preliminari” dove, secondo gli autori, il follow-up (1 e 3 mesi) dopo il trattamento ha dimostrato un miglioramento della scala di disabilità (EDSS) e del test di fatica rispettivamente nel 20% e 23% (EDSS) e nel 65% e 76% (fatica) dei pazienti. Dopo tre mesi molti pazienti (circa il 50%) hanno dimostrato una restenosi con la perdita dei benefici.
Nuove speranze dunque per una malattia gravemente invalidante che oggi colpisce circa 60.000 italiani, con esordio in persone giovani tra i 20 e i 40 anni e dunque nel pieno delle loro attività.
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