Cronaca
11 Dicembre 2010
Iniziato il processo per favoreggiamento. L'imputato si avvale della facoltà di non rispondere. Rigettata richiesta del pm di perizia

Aldrovandi, ultimo atto

di Marco Zavagli | 5 min

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Lino Aldrovandi con il pm Proto

L’atmosfera non è tesa come per il primo processo, quello per omicidio colposo. E, per la prima volta da due anni a questa parte, la famiglia Aldrovandi non partecipa come parte civile. In tribunale però c’è il padre di Federico, Lino Aldrovandi. Gli altri posti sono occupati dai colleghi del poliziotto imputato. Tra di loro non si scambiano sguardi. Solo il vicequestore Pietro Scroccarello, capo della squadra mobile, si stacca per andare a stringere la mano al padre orfano del figlio 18enne (“è stato l’unico – dirà Lino al termine dell’udienza -, l’ho apprezzato”). 

Si sta per discutere l’ultimo atto, per quanto attiene al primo grado di giudizio, della vicenda Aldrovandi. Il primo processo, il “processo madre”, come lo definirà in udienza il pm Nicola Proto, si è concluso con la condanna a 3 anni e 6 mesi per omicidio colposo dei quattro poliziotti che ingaggiarono la colluttazione nella quale perse la vita Federico il 25 settembre 2005. 

Lo scorso marzo si è concluso il processo bis aperto per chiarire i depistaggi nelle indagini con tre condanne dagli 8 ai 12 mesi per tre ufficiali della questura. Ora tocca a Luca Casoni, quella notte capoturno della centrale operativa della questura, cercare di dimostrare la propria innocenza. Per difendersi dall’accusa di favoreggiamento ha scelto il rito dibattimentale – l’unico a farlo nel processo bis. 

Ieri però ha scelto anche di avvalersi della facoltà di non rispondere, costringendo il giudice Diego Matellini (presidente del tribunale collegiale con a latere Rizzieri e Attinà) a rimandarlo al suo posto. La stessa linea difensiva è stata scelta da Marcello Bulgarelli, allora responsabile della centrale operativa, condannato in primo grado a dieci mesi per omissione e favoreggiamento. Chiamato questa volta come teste, anche lui ha scelto di non parlare. 

Bulgarelli sarebbe stato interrogato sulla famosa telefonata che intercorse tra lui e Casoni la mattina della morte di Federico. Quando alla domanda del collega che si stava recando in Via Ippodromo e che chiedeva cosa fosse successo, lui avrebbe interrotto la comunicazione. Una comunicazione che secondo le registrazioni della questura durò appena 23 secondi. Mentre i tabulati Telecom la prolungano fino a 78 secondi. 

Un mistero che ha fatto ritenere alla procura che Casoni abbia “taciuto circostanze a lui note omettendo di riferire il contenuto della conversazione” avvenuta con Bulgarelli alle 6.30 su quanto era accaduto in via Ippodromo. Con quella telefonata troncata avrebbe aiutato i quattro colleghi “ad eludere le possibili investigazioni dell’autorità giudiziaria nei loro confronti, non registrando il colloquio avvenuto immediatamente dopo”. Di qui l’accusa di favoreggiamento. 

Chi ha parlato invece – anche se con tanti “non ricordo” – sono stati i carabinieri protagonisti dello scambio di telefonate tra 112 e centrale operativa della questura. È toccato parlare anche a Nicola Solito, l’ispettore della Digos amico di famiglia degli Aldrovandi cui toccò il compito di riconoscere Federico morto sull’asfalto e di riferire ai genitori quanto avvenuto. Di fronte a quel ricordo Solito si è commosso, tanto che il giudice ha concesso una pausa di dieci minuti all’udienza. Al termine dell’intervallo dirà che “non sapevo nemmeno che era Casoni a sovrintendere il centralino quella notte. Me lo disse due o tre anni dopo. Ne rimasi scosso”. 

Come teste della difesa è intervenuto Stefano Fagioli, ispettore capo e coordinatore della centrale operativa da dieci anni, per spiegare il funzionamento degli apparati di registrazione in uso nel 2005 in questura. A quel tempo ce n’erano tre in dotazione, uno per la linea con Comacchio e due per le linee urbane. Di questi ultimi solo uno funzionava: se una chiamata arrivava sulla linea non coperta, questa non veniva registrata. “La registrazione – spiega in aula -, quando rispondeva l’operatore, partiva in automatico e al termine della conversazione si staccava da sola, ma anziché fermarsi subito andava avanti qualche secondo in più, tanto che nel nastro si registra il rumore della cornetta che viene messa giù se a chiudere è il centralinista”. 

A questo punto il pm ha chiesto una perizia sul nastro originale per capire se l’interruzione della conversazione incriminata sia avvenuta spontaneamente o manualmente. Una richiesta cui si è opposto il difensore di Casoni, l’avvocato Alberto Bova, che in primo luogo ha contestato la formulazione stessa del capo di imputazione, in cui Casoni – si dice – invita a interrompere la comunicazione: “su questo punto – sostiene Bova – esiste già la trascrizione integrale fatta tramite perizia del tribunale (quindi super partes, ndr) nel corso del processo principale. E in questa trascrizione la parola “stacca” o “interrompi” non esiste”. 

Il difensore va oltre: “non solo non è stato detto ‘stacca’, ma non è nemmeno mai avvenuto l’intervento manuale di interruzione della chiamata. E questo – sottolinea – è un dato già acquisito nel precedente processo”. 

E quindi cosa ci fa un poliziotto in tribunale? “L’errore è di fondo – aggiunge l’avvocato -: la registrazione telefonica che dura 23 secondi è un’altra, quella delle 6.32. Stiamo parlando di niente”. 

Ma quella cui fa riferimento Bova, in realtà, compare sì nei tabulati Telecom, ma non viene fatta da Casoni, bensì da un’altra utenza telefonica, probabilmente dal cellulare di qualcuno che era già in via Ippodromo. Ora, la difficoltà in cui viene a trovarsi l’accusa riposa nel fatto che il famoso “stacca” venne detto come interpretazione delle proprie parole da Casoni in aula nel corso del primo processo, quando venne chiamato come testimone. Nella successiva perizia, però, la parola è così flebile o il volume così basso che la trascrizione non la contempla nemmeno. E la conferma o la smentita no può certo arrivare dalla viva voce di Casoni, che ha scelto di non parlare. 

La parola tornerà al pm a gennaio, quando si terrà la discussione e, forse, la sentenza.

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