Du iu śpich frares?
28 Maggio 2023

Il tempo dei fenicotteri rosa e…

di Maurizio Musacchi | 7 min

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Cari lettori, ho ricevuto un prestigioso riconoscimento al 3° premio del Concorso Nazionale Laghese di Poesia e Narrativa 2023. Vi pubblico qui il racconto sperando vi piaccia.

Mi guarda assorto il vecchio, seduto su una panchina del Parco Massari di Ferrara. Io sto procedendo con la mia fida vecchia bicicletta, tagliando per l’entrata di via Ercole d’Este, per poi immettermi in via Porta mare, verso il centro della città. Si tratta di un tragitto che percorro frequentemente allorché torno dalla Certosa, il maestoso cimitero monumentale ferrarese. Vado a far due chiacchere coi miei avi: nonni e genitori. Parlare con loro mi rilassa. L’ambiente è silenzioso, solo qualche merlo, o qualche tortora, nei periodi primaverili degli amori, tagliano il silenzio di quei sacri luoghi. Profumi di vecchi e nuovi fiori e delle siepi dei cimiteri con quel caratteristico odore non proprio gradevole dei cipressi ormai, da tempo immemorabile, diventati simboli di cimiteri in Italia. Ma sto divagando, dicevo, all’inizio di questo discorso, di quel vecchio del Parco Massari e del suo osservarmi, poi:<< Mò ti a n’ét brìśa Cìcio, al fiòl dal biciclàr ad Córs Porta Po? (Ma tu non sei Ciccio, il figlio del riparatore di biciclette di Corso Porta Po)>>? Mi fermo, facendo stridere i vecchi pattini della bicicletta, lo guardo:<<Sì a sóƞ mì, mò tì chi j’ét, mó scusa, mó am pàr ad tgnósrtat brìśa. (Certo sono io, ma tu chi sei che non mi sembra di riconoscerti.>> Andiamo avanti in dialetto e lui mi spiega di essere Franchìƞ al mazalàr (Franchino il macellaio). Lo scruto per bene. Pochi capelli bianchi coprono malamente una testa lucida di calvizie imperante. Il viso raggrinzito e due occhiali che porta sul suo caratteristico naso aquilino, molto pronunciato, per il quale gli appioppammo lo “scutmàj” (soprannome in dialetto ferrarese): “Canòcia”. Ha un po’ di pancetta. Nel preambolo di dialogo, noto che respira faticosamente, quasi ansimando. Franchìno, uno della “Banda dal Piazàl ad Sanbandét”. Eravamo una sottospecie di “Ragazzi della via Pal”. Il piazzale della chiesa di San Benedetto a Ferrara era il nostro luogo d’incontro , di antichi giochi ferraresi caratteristici: “Bàch e paƞdóƞ”, “I vìv e i mòrt”, “Ill bucìƞ”, “La cùt”, “Scàrga l’àśan” e altri. Ma soprattutto, a pallone. A volte con palloni composti da vecchi giornali, pressati a sfera e tenuti insieme da elastici, ricavati da vecchie camere d’aria d’automobile. Tali palloni erano di una compattezza e relativo peso, molto consistenti. Colpi di testa erano evitati, per ovvie ragioni sistematicamente, dai contendenti. Mi siedo accanto al vecchio amico d’un infanzia, trascorsa da oltre mezzo secolo. Parliamo e immancabilmente, come capita a noi “umarèl”, rivanghiamo i tempi nei quali eravamo componenti de “La banda dal Piazàl ad Saƞbandét”. Tra i ricordi più vividi e indimenticabili, ricordiamo le gite in bicicletta. Non avevamo che pochi soldi, le stitiche

sabadine” (paghette),da gestire una settimana, che poi, la domenica, si esaurivano con il biglietto per assistere a due film in seconda o terza visione ai vari cinema, di second’ordine Boldini, Diana o San Pietro. Poi, gli immancabili brustolini, da consumarsi all’interno. Usciti, s’andava da Orsucci, in via Garibaldi, verso casa nostra, consumando, con una pizzetta, ceci o una fetta di castagnaccio, la quasi ultima parte della povera “sabadina”. Però le gite, quelle indimenticabili gite ai Colli Euganei, o a Bologna. Una però ci era rimasta nel cuore, anzi più di una poiché la ripetemmo più volte. Non poteva mancare l’odierna Porto Garibaldi, ma per noi che ne avevamo sentito il nome dai nostri genitori o anziani di famiglia era: Magnavacca. In sostanza poi s’andava a visitare la pineta ove poi sarebbero sorti i Lidi Ferraresi, poi chiamati Comacchiesi. Già Comacchio: emblema dell’infinità sublime, maestosa magica delle Valli. Lì la natura si apriva per noi, turisti squattrinati, portati in quei luoghi magici dalla nostra forza di adolescenti, in biciclette improponibili per i giovani “smarfonisti” annoiati del giorno d’oggi. La fatica e il sudore conseguente, attiravano sui nostri corpi sfiancati dai quasi sessanta chilometri, zanzare impietose delle nostre problematiche fisiche, anzi. Il cielo era brulicante di rondini. Questi simpatici volatili si ingozzano di migliaia di zanzare al giorno, evidentemente tante, troppe sopravvivevano per torturare i nostri poveri corpi indifesi. Ma ecco, là fra gli acquitrini, la natura si apriva alle meraviglie che non avevamo mai visto fin ad allora, fra arbusti, alberi di tamerici, canne lacustri ecco ecco…la incommensurabile vera meraviglia di quei magici luoghi. Migliaia di folaghe, aironi, fenicotteri rosa, anatre di svariate specie e i principi della bellezza valliva : i fenicotteri rosa. La prima volta che ci capitò di osservare a poche decine di metri tali sortilegi magici della magica madre natura, rimanemmo esterrefatti. Più in là, la pineta, la spiaggia. Le corse a piedi nudi ai limiti della risacca, quel profumo inconfondibile di salsedine del mare, ruggente, a seguito d’una probabile mareggiata notturna, le dune, (oggi purtroppo scomparse, fagocitate da moderni orrendi palazzoni), piccole montagnole ove ci arrampicavamo fin sulle cime per poi rotolare in basso appagati. Ricordo che ci sedevamo esausti, ma felici ad osservare ciò che Dio o chi per lui, ci aveva regalato. Stanchezza, zanzare, fame, niente non sentivamo niente. Pochi minuti di muta osservazione, poi i commenti, compiacimento di tali paradisiache visioni che ovviavano ad una pur naturale affaticamento, dovuto a quel mulinare di pedali che ci aveva spinto, alcune ore prima, a raggiungere a tale meraviglie. “Franchìƞ Canòcia”, mi guarda, ansima un po’ e con il caratteristico fischio da asmatico, riprende il discorso, ma invece di guardarmi negli occhi, china la testa e parla al viottolo ove sono io ancora a cavalcioni della mi fida bicicletta:<< Pensa un po’ “Cìcio”, (quello era il mio “scutmaj-soprannome dei tempi della Banda dal Piazàl). Quei magnifici esemplari, tra i più belli che la natura abbia concepito, i fenicotteri rosa, devono il loro meraviglioso colore al fatto che si cibano prevalentemente di milioni di crostacei di tale meraviglioso colore. La natura, per regalarci tale bellezza cromatica, sacrifica miliardi di essere viventi. Pure le poetiche rondini che volteggiano sopra noi, si nutrono, quindi uccidono milioni di zanzare. Tali antipatici insetti, per le i punture fastidiose odiati dall’uomo, in effetti ci succhiano il sangue per poter riprodursi permettendo alle femmine di portar a termine lo sviluppo delle uova che genereranno i loro figli. In sostanza: la bellezza dei colori dei fenicotteri, la poesia del volo delle leggiadre rondini, possono vivere il nostro mondo, mostrarsi tanto poetiche, a discapito di miliardi di piccole creature sacrificate alla bisogna. Nulla di macabro, nell’esposizione della morte, la Dio, o chi per esso, che quella che si cima catena alimentare. Gli animali carnivori si nutrono d’esseri viventi, uccidono per necessità, senza il sacrificio di tantissimi insetti, morirebbero di fame. Madre natura dunque è crudele? Morte per vita? La caccia spietata dei carnivori a creature sacrificali sull’altare del grande mistero della vita e della morte… Magari, consentimi un’amara riflessione, non è mia, tutta la gente di pace realizza tale idea : solo l’uomo, oltre ad uccidere per fame e sprecandone gran parte di tale cibo…uccide per malvagità, odio personale, ma soprattutto, per conquistare territori o privilegi, uccide per guerra e tali stragi sono le uniche ingiustificabili in questo meraviglioso mondo popolato di fenicotteri rosa, rondini e…uomini>>. Non ho altro da aggiungere…anzi avrei tanto, la foschia del tempo custodisce tanto, ma mi fermo lì. Saluto il vecchio amico, mi alzo, spingendo su un pedale della bicicletta, prendo la relativa giusta velocità mi avvio verso casa. Allungo il tratto di strada, percorrendo per quel meraviglioso viale ricavato sulle antiche Mura Estensi. Situato a poche centinaia di metri dal caotico, inquinato, centro storico. Il verde dei prati e alberi, mi circondano in un ideale abbraccio. Mi sento volare… respiro profondamente. Un merlo mi saluta mentre esco dal percorso- mura e mi immetto nella caotica via Bologna, la strada che mi porta a casa… mentre lassù nel cielo mi saluta un piccolo stormo delle ultime rondini, che ancora solcano il cielo della città; scampate chissà come all’inquinamento imperante. Pare quasi che queste creature abbiano voluto mandarmi un messaggio, speranza? auspicio? Voglio crederci: alla fine credere non costa nulla…

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