La chiusura del Giubileo della speranza è diventata anche un atto di accusa contro le narrazioni che alimentano diffidenza e paura verso i migranti. Nell’omelia conclusiva, l’arcivescovo Gian Carlo Perego ha scelto di non edulcorare il tema, indicando con chiarezza le responsabilità culturali e politiche che, a suo giudizio, ostacolano una vera convivenza.
Riprendendo la bolla giubilare “Spes non confundit” di Papa Francesco, Perego ha ricordato che tra i volti che più chiedono segni di speranza ci sono proprio migranti, profughi e rifugiati. Persone costrette a fuggire da guerre, violenze e discriminazioni, che arrivano anche nel territorio ferrarese con il desiderio di ricominciare. Un’aspettativa che, ha ammonito l’arcivescovo, rischia di essere “vanificata da pregiudizi e chiusure”.
Il punto centrale dell’omelia è stato proprio questo: la costruzione sociale della paura. Secondo Perego, i segni concreti di accoglienza presenti nella Chiesa e nelle comunità locali (dall’ospitalità nelle case ai percorsi di lavoro, dalla scuola interculturale ai tutori per i minori non accompagnati) convivono con una narrazione opposta, che tende a dipingere il migrante come una minaccia. Una narrazione “non nasce per caso”, ma che è spesso “alimentata da interessi politici, da populismi e da falsità”.
Parole nette, che chiamano in causa l’uso strumentale del tema migratorio nel dibattito pubblico. L’arcivescovo ha denunciato un clima in cui la paura viene esasperata per raccogliere consenso, mentre l’anticlericalismo e la semplificazione ideologica finiscono per screditare le esperienze di accoglienza, presentandole come ingenue o pericolose. In questo modo, ha spiegato, non solo si colpiscono i migranti, ma si indebolisce l’intero tessuto sociale.
Per Perego, i pregiudizi non sono semplicemente opinioni personali: diventano barriere che impediscono di riconoscere la dignità dell’altro. E quando la dignità viene negata, viene meno anche la possibilità di costruire un futuro comune. “La cultura dell’incontro – ha ricordato – è l’unica che dà futuro, l’unica che dà speranza”, contrapponendola a una cultura della chiusura che genera conflitto e isolamento.
Anche Gesù, Maria e Giuseppe furono profughi, costretti a cercare salvezza altrove. Dimenticarlo, ha lasciato intendere l’arcivescovo, significa tradire non solo il Vangelo, ma anche la memoria storica e umana dell’Europa.
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