Era una piccola promessa del calcio ferrarese. Era un agente della Polizia di Stato. Aveva una moglie e una bambina piccola. Poi, all’improvviso, la sua vita è cambiata.
Roberto Fantini oggi ha 63 anni, una figlia e due nipoti. E una famiglia che non lo lascia mai solo. Ma anche tanti amici. “Dopo 40 anni c’è ancora gente che si ricorda di me” confessa quasi stupito a chi lo sta intervistando.
Romagnolo di origine come i suoi genitori Alba e Marino, cresce a Ferrara. Abbandona gli studi al secondo anno dell’istituto tecnico, “perché la mia grande passione era il calcio”.
“Ha iniziato a correre dietro al pallone il giorno stesso in cui ha iniziato a camminare” giura mamma Alba. Il suo sogno era quello di indossare la maglia di “una squadra vera”. E quel sogno si realizza.
La Spal nota quel terzino fluidificante che corre in continuazione e mostra una grinta non comune (“ero uno che picchiava”, ammicca Roberto). E così viene ingaggiato dalla società biancoazzurra e milita nella Primavera. Tra i compagni di squadra si nota un certo Sergio Domini, che finirà in serie A con le casacche di Roma, Cesena, Lazio.
“Sergio non mi ha mai dimenticato. Viene spesso a trovarmi” fa sapere l’ex spallino, mostrando foto, gagliardetti e palloni firmati.
Dopo quattro anni la Spal lo cede alla Bondenese, dove rimane fino al 1981. Lui, con ancora negli occhi le imprese di Gigi Riva dello scudetto 1970, avrebbe desiderato finire a giocare per il Cagliari.
Nel frattempo si fidanza con Barbara. Lui aveva 16 anni. Lei era di due più giovane. Arrivano i 18 anni e Roberto deve lasciare provvisoriamente la sua compagna per il servizio di leva. Decide di arruolarsi nel corpo della Polizia di Stato. È il gennaio 1982. Dopo la Scuola di Trieste viene destinato a Bologna e, successivamente, al reparto di Polizia Stradale di Casalecchio di Reno.
La divisa gli piace. E guidare le moto “mi faceva sentire Rambo”. Sceglie di firmare per servizio permanente effettivo. Nel luglio 1984 è “uno sbirro”.
Qualche mese prima, nel febbraio 1984, Barbara gli comunica la grande notizia: aspettano un figlio. Decidono di sposarsi. Gli anelli vengono scambiati il 23 aprile 1984. Il 19 ottobre dello stesso anno nasce Sara.
Dopo una parentesi di sei mesi a Vicenza, ottiene l’avvicinamento a Ferrara. Entra nella Squadra mobile. “Ero felice. Anche con i colleghi e i superiori mi trovavo molto bene”. E poi poteva tornare a vedere allo stadio, anche se solo come servizio d’ordine, la sua Spal.
Agli amici in quegli anni confida un segreto: “raramente mi è capitato di mettere le manette ai polsi di qualcuno, fortunatamente. Ma quando l’ho fatto ho avuto sempre una stretta al cuore. Si trattava, generalmente, di ladruncoli, di ubriachi molesti… insomma persone verso i quali la vita era stata veramente avara di tutto. Non come con me”.
Non come lui. E arriva quel 24 dicembre del 1985.
Esattamente quarant’anni fa, alle 5 di mattina, Roberto, assieme al collega Andrea Lussu, stava rientrando in Questura la termine del turno di servizio.
La sua Alfa Giulietta, all’incrocio tra via Palestro e Corso Porta Mare, all’altezza di piazza Ariostea, viene speronata da un furgoncino di un forno. Roberto rimane incastrato al posto di guida. Riporta la frattura della clavicola e un trauma cranico gravissimo.
Viene portato in ospedale in condizioni disperate. Serve un intervento d’urgenza di neurochirurgia per rimuovere l’ematoma alla regione cranica e per ricollocare i due lobi cervicali che l’urto aveva spostato dalla loro naturale sede.
L’intervento, durato tre ore, gli salva la vita. Rimane in coma per tre mesi e mezzo. Inizia la lunga riabilitazione al San Giorgio. Qui diventa amico dell’allora degente Federico Fellini.
“C’era la fila davanti alla Riabilitazione per andare a trovarlo”, ricordano i genitori Marino e Alba.
Roberto non tornerà più come prima. Le capacità motorie lo costringono su una sedia a rotelle e anche i danni cerebrali sono evidenti. Accanto a lui, sempre, ci sono i genitori e il fratello Davide. Anche Davide è entrato in Polizia e dopo 30 anni di Antidroga ora è in pensione.
Roberto può tornare a casa nel marzo 1987, ma le cure fisioterapiche sono quotidiane. “Dopo due anni è riuscito a muovere un dito”, mima la madre con l’indice. Se la riabilitazione è andata bene, il passo successivo, quello del reinserimento sociale, è mancato.
Mentre Roberto parla le fatiche di quarant’anni di sacrifici riempiono gli occhi dei genitori. “Sono stati quaranta anni duri, inutile fingere di no – ammettono Marino e Alba -, ma nello stesso tempo sono stati belli, perché abbiamo ricevuto cura e amore da moltissime persone. Senza di loro non ce l’avremmo fatta. Impossibile fare tutti i nomi di chi è ci è stato vicino, sarebbero troppi gli operatori sanitari, i colleghi poliziotti di Roberto, o anche solo l’impiegato sconosciuto che ha curato una pratica con sollecitudine, e poi i mille volontari che ci hanno aiutato, i fisioterapisti, i medici, fino ai camerieri che facevano posto al tavolo del ristorante per la carrozzina, sorridendo e scherzando con noi”.
Torno a Roberto. Se pensi a quella mattina di 40 anni fa cosa ti viene in mente?. “Penso che ho sbagliato tutto nella vita. Ma la vita è splendida!”. Roberto spiega che “dovevo fare il calciatore. Ma l’amore è amore…”. E quell’amore gli faceva spesso saltare gli allenamenti. “Era l’anno in cui dovevo fare il grande salto – ricorda -. E finii invece in una serie minore”.
Cosa diresti a un ragazzo di vent’anni che si trova per una disgrazia su una sedia a rotelle o paralizzato? “Gli direi di non mollare. La vita è sempre bellissima. Può cambiare, può mettersi in salita, ma percorrerla è una cosa meravigliosa”.
E della Polizia ti manca qualcosa? “Tutto. Ero felice quando montavo in servizio. Ma la vita continua. E vorrei che continuasse ancora un bel po’!”.
Dopo il Covid Roberto non frequenta più i laboratori della Casa del Ragazzo. Gran parte del tempo la passa a giocare a carte con il fratello e con gli amici. “Con lui vinco sempre io”, scherza guardando Davide.
Come vedi il mondo oggi? “Il mondo è cambiato in merda. Scusa se sono villano. Ma non c’è più rispetto per le persone”.
Sorride sempre Roberto. “Ha sempre avuto la battuta pronta” fa presente il fratello. Da qualche anno però un ictus gli ha reso difficile parlare. Ma il sorriso è sempre quello di quando era giovane.
Solo in una occasione si commuove. Quando canta “Uno su mille ce la fa” di Gianni Morandi.
“Se sei a terra non strisciare mai. Se ti diranno, ‘Sei finito’, non ci credere. Finché non suona la campana, vai… Uno su mille ce la fa, ma quanto è dura la salita”. E Roberto quella salita la sta percorrendo da 40 anni. Sempre con il sorriso sul volto.