Lettere al Direttore
8 Dicembre 2025

L’utopia della decarbonizzazione tecnologica

di Redazione | 3 min

Leggo su un quotidiano un articolo dal titolo eloquente: “Le aziende che catturano CO₂ dall’aria emettono più carbonio di quanto ne eliminano”. Una notizia che conferma ciò che molti ambientalisti sostengono da anni: l’utopia di ripulire l’atmosfera attraverso la cosiddetta decarbonizzazione tecnologica sta mostrando tutti i suoi limiti.

L’idea di rimuovere la CO₂ già emessa, anziché ridurne drasticamente la produzione, si sta rivelando una strada molto più complessa e meno efficace di quanto inizialmente promesso. Con buona pace dei produttori di combustibili fossili (principali sostenitori di queste tecnologie) la via più realistica per mitigare il cambiamento climatico resta quella più ovvia: produrre meno CO₂.
Eppure, negli ultimi anni, diverse startup hanno investito nella cattura dell’anidride carbonica, e anche nella nostra regione si è arrivati a individuare possibili siti di stoccaggio in vecchi giacimenti di metano esauriti, raggiungibili tramite gasdotti utilizzati “al contrario”. Una soluzione che solleva dubbi non solo tecnici, ma anche ambientali, soprattutto in un Paese sismico come l’Italia: immettere CO₂ compressa nel sottosuolo comporta rischi di fughe, fratture dei tappi geologici e problemi ancora poco esplorati.

Ora, però, arrivano anche i primi riscontri operativi. Alcune aziende impegnate in questi processi dichiarano che per ogni tonnellata di CO₂ catturata, l’intero ciclo produttivo ne genera fino a sedici volte di più. Un risultato che ribalta completamente la narrativa della “soluzione industriale” al riscaldamento globale e solleva interrogativi pesanti sull’effettiva utilità di questi investimenti.

Nonostante ciò, una parte della politica continua a finanziare generosamente questi progetti, spesso in assenza di solide evidenze scientifiche o economiche, sostenendo di fatto gli interessi delle lobby dei combustibili fossili. È una dinamica già vista in passato: fondi pubblici destinati a opere faraoniche, poi bocciate come irrealizzabili, con costi elevati per progettazioni e penali in caso di mancata realizzazione, che ricadono sempre sui cittadini.

Nel frattempo, il dibattito politico si concentra su tutt’altro, persino su riforme per rendere economicamente responsabili i magistrati per eventuali errori, mentre nessuno sembra porsi il problema, ben più concreto, della responsabilità di chi ricopre un ruolo politico per scelte costose e fallimentari.
La comunità scientifica, così come chi si occupa di cambiamenti climatici, resta scettica su queste procedure, evidenziando come dietro ci sia spesso un unico interesse: quello dei produttori di energia fossile. È chiaramente un sistema che possiamo definire greenwashing, un modo per far apparire ambientalmente sostenibile ciò che in realtà non lo è. Inoltre, i costi sono sproporzionati se si pensa che stoccare una tonnellata di CO₂ costa molto di più che evitare di produrla attraverso fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico.

A questo si aggiungono i rischi ambientali: eventuali incidenti potrebbero provocare danni irreversibili, ad esempio aumentando l’acidità delle acque marine. Il mare e gli oceani già catturano quasi un quarto di tutta la CO₂ prodotta nel mondo. Ripristinare la flora marina, con le sue piante e alghe nei fondali, potrebbe rivelarsi molto più efficace, e naturale, di questi tentativi industriali.

La conclusione che molti analisti ritengono inevitabile è semplice: la priorità resta tagliare le emissioni alla fonte. Le tecnologie di cattura, ammesso che in futuro diventino realmente efficienti e sostenibili, potranno solo affiancare questo sforzo, mai sostituirlo. Ed è su questa consapevolezza che dovrebbe basarsi ogni politica climatica credibile.

Paride Guidetti (M5S)

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