Uno pseudo imam, una giornalista purtroppo vera, Eugenia Fiore, una trasmissione “Quarta Repubblica” di Rete 4, tanta ingenuità in chi si lascia intervistare per strada ed accetta che affermazioni senza alcuna riflessione, vadano in onda, ed il gioco è fatto. La ciliegina sulla torta è l’affermazione dello pseudo imam che alla domanda della giornalista su cosa pensasse della libertà delle donne, con un sorriso da schiaffi risponde: “Donna libera è come puttana”.
Ingredienti perfetti per una notizia che invita ad una pericolosa polemica.
Parliamo della puntata della suddetta trasmissione andata in onda il 10 novembre scorso e che aveva come argomento la provocatoria domanda: la provincia italiana è sempre più islamica? La cittadina che rappresenta la provincia islamica è Portomaggiore in provincia di Ferrara.
Il servizio invita ad una lettura distorta, superficiale, allarmistica di come stanno le cose. Lettura che in un attimo distrugge qualunque ponte e apre baratri profondi.
Portomaggiore non è un piccolo paesino nel ferrarese e la giornalista, che così lo definisce, dovrebbe sapere che i centri con oltre diecimila abitanti hanno pieno diritto al titolo di città. Non è solo un titolo di prestigio, infatti con tale numero di abitanti aumentano gli investimenti economici e strutturali di vario tipo.
In questa cittadina ci sono le scuole superiori, una casa della salute, piccole realtà industriali di pregio, negozi, supermercati e banche e soprattutto sono presenti diverse associazioni di volontariato attive nel territorio. Qui ci sono collegamenti ferroviari discreti con Ferrara, Bologna e Ravenna.
È un comune territorialmente vasto e fino a qualche anno fa aveva un primato italiano: la più bassa natalità d’Italia. I pochi giovani spesso, soprattutto dopo l’università, si stabilivano altrove lasciando che Portomaggiore avvizzisse come un frutto rinsecchito. Le numerose case vuote perdevano valore in modo drammatico e per i proprietari c’era la preoccupazione, oltre che per le tasse, per un’eventuale demolizione a proprie spese.
Un paese che lentamente si rassegnava ad essere sempre più vecchio e dimenticato.
Ai primi anni del duemila, quando in Italia si pensava e si sperava di essere abitanti di una ricca nazione, qualche migrante ha visto nella cittadina tante opportunità per stabilircisi. Collegamenti vari, case a buon mercato da affittare o addirittura comprare. Una posizione ideale per i stranieri impiegati come operai dell’industria e dell’agricoltura nelle province limitrofi. Bambini e ragazzi avrebbero nuovamente popolato le scuole che rischiavano di essere assorbite dal polo scolastico di Argenta come era già successo per l’ospedale.
Arrivano così marocchini, pakistani, cinesi, rumeni, moldavi e altre persone dal mondo. Una meraviglia per chi crede nell’opportunità del meltingpot.
Alcuni portuensi, invece, si sono sentiti minacciati.
La nuova popolazione che maggiormente incuteva timore era la pakistana.
Erano di carnagione più scura, conservavano il proprio abbigliamento e si muovevano per la città in piccoli gruppi. Erano antipatici a tutti, persino ai marocchini che si sentivano minacciati dall’idea che dovessero condividere con loro una torta di benessere a basse calorie.
Pian piano comprano o affittano le vecchie grandi case abbandonate, con un cortile con al centro un pozzo, simili a quelle che avevano in Pakistan. Diventano la base di appoggio per altri connazionali attratti dal miraggio Italia. Nasce una colorata Portomabad.
Le prime avvisaglie di fastidio da parte dei portuensi fanno sorridere: stendono i panni ad asciugare all’aria, amano una cucina in cui si frigge, non rinnovano spesso lo zerbino della porta d’ingresso, non sono puntuali nelle pulizie degli spazi condominiali.
Non sono problemi gravi, ma la paura mista ad una rabbia irrazionale, monta fino a che si raccolgono la firme per una petizione con la quale si chiede che la comunità pakistana venga addirittura allontanata dal territorio.
L’amministrazione locale reagisce dando vita ad una consulta per l’immigrazione. Una scelta avveniristica e utile.
Nasceva un dialogo fra culture, forse tra i primissimi in Italia.
Fino al 2008, anno della crisi economica mondiale, le cose sono andate verso un progressivo anche se non velocissimo, miglioramento.
C’erano finanziamenti per le scuole e i comuni che avevano il problema dell’inclusione. Si progettava insieme e le paure di attenuavano. C’era ancora tanto da fare, ma la direzione sembrava tracciata.
Nel secondo decennio del duemila le cose sono cambiate. Le nuove ondate migratorie erano profondamente diverse, tante persone avevano sofferto da diversi anni, direttamente o meno, il clima intossicato dalle conseguenze dell’11 settembre 2001, e chi migrava ora aveva urgenze diverse e caratteristiche sociali spesso critiche.
L’Italia ha avuto forti instabilità di governo che hanno premiato, alla fine della corsa, una destra poco incline ad accogliere migranti, ad investire nell’istruzione, nella sanità. La facile narrazione usata per trovare un colpevole di tutto il male della società ha raccontato il migrante come zavorra per l’economia, un ruba lavoro pericoloso per la “patria”, la cultura e la razza.
I ponti sono crollati pericolosamente.
Il risultato è stato l’arroccamento di ognuno nella propria comunità d’origine.
La verità delle cose si è smarrita in fakes facili da ascoltare e da ripetere agli altri con la velocità di un virus. Una delle più divertenti diceva che i pakistani facessero la pipì fuori dal balcone sulle teste di chi passava per strada.
E c’è stata poi, la vera emergenza pandemica, quella col virus vero, che ha chiuso il mondo a casa con doppia mandata lasciando tutti soli ad impastare opinioni ignoranti e pericolose su vaccini, complotti e chi ne ha più ne metta.
In questo monadismo sociale, definirlo culturale è una parola grossa, si possono spiegare, ma non giustificare nel modo più assoluto, le parole dello pseudo imam che ha definito puttane le donne libere. Si guarda indietro alla vecchia società di provenienza che accoglie chi si sente smarrito in paesi stranieri.
L’Occidente è diventato sempre più un pericolo per le culture altre e in un’Italia sempre più diffidente e impoverita, non si trova più nemmeno la speranza di una minima stabilità economica.
Il lavoro nero è una realtà diffusa al nord quanto al sud. I caporali si arricchiscono e sono spesso essi stessi migranti di seconda generazione che conoscono molto bene le dinamiche della precarietà e della paura e sfruttano la situazione.
Molta manovalanza straniera non è in regola con i documenti e non è un segreto per nessuno, non parlano l’italiano e vengono scoraggiati dall’impararlo. Hanno il terrore di venire espulsi e non capiscono che non corrono questo rischio perché la loro manodopera a bassissimo prezzo è insostituibile.
I loro figli avvertono questa zuppa rancida di paura, di minaccia di povertà ed esclusione. Altrettanto la sentono i ragazzi italiani più fragili socialmente. Paura e fragilità sono il trait d’union che li porta ad organizzarsi in gruppi ribelli inclini al teppismo. Sono i cosiddetti “maranza”.
Sia i maranza che i lavoratori in nero socializzano in gruppi spesso esclusivamente maschili e guardano questa nostra triste e decadente società attraverso i vetri spessi di un acquario e ciò che vedono non gli piace proprio per niente.
Grazia Satta