di Chiara Baratelli*
La recente decisione del governo di eliminare dalle scuole i programmi di educazione sessuale e affettiva mette in luce un problema più profondo: la confusione dei piani del discorso che oggi caratterizza questi temi.
Affettività e sessualità, se associate al termine “educazione”, rischiano di essere trattate come materie da insegnare, quando in realtà non possono esserlo. Non sono saperi da trasmettere né competenze da acquisire, ma esperienze soggettive e simboliche, da vivere, pensare e attraversare nella relazione con l’altro.
Dietro la scelta politica — e dietro le reazioni, spesso opposte e altrettanto ideologiche — emerge un problema culturale e simbolico: non distinguiamo più tra informazione, educazione e formazione. Parlare di contraccezione, consenso o prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili appartiene al campo dell’informazione. Si tratta di conoscenze necessarie, da trasmettere con chiarezza e responsabilità, come parte di un percorso di salute pubblica.
Ma l’affettività e la sessualità, nella loro dimensione soggettiva e simbolica, non possono essere insegnate come materie scolastiche. Non sono dati né regole da imparare: sono esperienze da attraversare, da pensare, da elaborare nella relazione con l’altro.
Il rischio di trasformare l’amore o la sessualità in un programma didattico è duplice. Da un lato si riduce ciò che è intimo e complesso a una serie di nozioni; dall’altro si solleva la scuola dalla responsabilità più profonda: quella di formare adulti capaci di ascolto e di parola. Non è con un’ora di lezione che si impara a stare in relazione, ma grazie alla qualità del legame che ogni insegnante sa costruire con i ragazzi. Per questo motivo, ogni insegnante dovrebbe essere formato a un certo tipo di ascolto, capace di accogliere domande, dubbi e sentimenti dei ragazzi, mentre la presenza di figure esperte come psicoanalisti — oggi rare, ma per lo più assenti assenti all’interno della scuola – sarebbe fondamentale per sostenere il lavoro formativo in modo adeguato.
Come spesso accade, la questione è diventata terreno di scontro politico. Una parte teme che parlare di identità o di genere significhi minacciare modelli familiari tradizionali; l’altra, pur con intenzioni legittime, rischia di ridurre la complessità dell’esperienza affettiva a una battaglia per diritti di categoria. In entrambi i casi si perde di vista la sostanza: l’affettività e la sessualità non sono questioni ideologiche, ma esperienze universali dell’essere umano.
È prevedibile che i pedagogisti abbiano molto da dire, e il confronto è necessario. Ma una riflessione seria dovrebbe partire da una distinzione chiara:
• l’informazione trasmette dati,
• l’educazione orienta comportamenti,
• la formazione — quella autentica — trasforma il soggetto.
E questa trasformazione non si insegna frontalmente: richiede tempo, presenza e ascolto.
Ciò che manca oggi, nelle aule come nelle famiglie, è lo spazio simbolico in cui poter pensare l’esperienza affettiva e sessuale. Non servono lezioni sull’amore o sul desiderio, ma adulti capaci di ascolto e relazione, in grado di integrare affettività e sessualità trasversalmente in ogni ora di lezione, non come materia separata. Non servono nuovi programmi, ma una cultura capace di non confondere il sapere con il sentire.
Forse, allora, la questione non è se la scuola debba insegnare affettività e sessualità, ma se siamo ancora capaci, come società, di abitare la complessità del sentire umano. Perché si può informare su tutto — sul corpo, sulla salute, sul rispetto — ma l’amore, il desiderio e l’affettività restano esperienze vive. E come tali non si insegnano: si ascoltano, si attraversano, si vivono.
*psicoanalista lacaniana e sessuologa
			 
				
				
				
				
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