Mitra puntati in fronte, privati di acqua e medicine, derisi, perquisiti come criminali. “Non contava nulla che fossi un senatore della Repubblica“. Queste le parole di Marco Croatti del Movimento 5 Stelle, rievocando le ore drammatiche dell’abbordaggio da parte dell’Idf durante la missione della Global Sumud Flotilla. Una testimonianza fatta di umiliazioni e violenze, ma anche di solidarietà e coraggio civile. E di una scoperta che attraversa tutto il suo intervento alla sala Ex Refettorio: la protezione più grande non è venuta dai governi, ma dalle persone comuni.
“Se è stato fondamentale? Sì, e lo dico con tutta la forza che ho: l’equipaggio di terra e tutte le mobilitazioni internazionali hanno gonfiato le vele della Flotilla“. Afferma Croatti con voce vibrante e sguardo fisso sul pubblico. Un racconto duro, intimo, che mescola paura, umiliazione e riconoscenza. E che si fa testimonianza collettiva di una delle esperienze più delicate e simboliche della solidarietà internazionale verso Gaza.
Croatti lo ripete più volte: la missione non sarebbe mai esistita senza la mobilitazione dal basso. “Lo diciamo sempre, sembra retorica – spiega – ma la flotta di terra e quella di mare sono state una cosa univoca. Sono partite barche prima e barche dopo la nostra. Tutti quanti voi avete partecipato attivamente. Le migliaia di giovani scesi in piazza sono stati i primi a far funzionare la missione”.
Il senatore dichiara di essere partito “come attivista, non come senatore”. “Nessuno nel Movimento mi ha detto di non farlo – aggiunge -. Mi hanno lasciato la libertà di scegliere, e dopo aver ricevuto il sostegno anche della mia famiglia io ci ho messo dentro tutto quello che potevo come senatore della Repubblica”.
A bordo dell’imbarcazione di cui faceva parte, c’erano un capitano, un infermiere, un giornalista e vari attivisti: “C’erano insegnanti, ingegneri, avvocati, politici anche di altri Paesi. Non solo italiani. Tutti uniti dallo stesso principio di resistenza non violenta“. “Io – racconta – avevo un carico in più: il mio passaporto di servizio. Lo consideravo un contributo di protezione, un modo per accendere un faro sulla missione. Ma quella protezione, purtroppo, non è servita minimamente. Né quando siamo stati attaccati, né quando siamo scesi a terra”.
Come ricorda il senatore, infatti, l’aiuto è arrivato dal mare, ma non da governi o dall’esercito: “Durante la navigazione, una ragazza ha avuto una colica renale fortissima. Stavamo cercando di capire come aiutarla, l’infermiere a bordo ha fatto il possibile mettendole la flebo, quando la nave di Emergency è giunta in nostro soccorso. L’hanno presa a bordo, l’hanno curata, e poi l’hanno riportata alla nostra imbarcazione in elicottero. Quella è stata la prima volta in cui ci siamo sentiti veramente protetti: da chi fa il proprio dovere umanitario, non da chi dice di difendere la sicurezza”.
Un momento di sollievo che, a distanza di poche ore, avrebbe lasciato spazio alla paura più nera: l’avvistamento di oltre quindici barche militari israeliane in arrivo, in acque internazionali. Solo una settimana prima, le canzoni degli Abba sul canale radio d’emergenza per bloccare le comunicazioni della Flotilla. Poi gli avvertimenti e gli attacchi dei droni. Il primo ottobre, il violento abbordaggio. Nonostante il lancio del mayday da 52 navi, nessun aiuto governativo. “Ricordo quegli occhi azzurri, solo quelli riuscivo a vedere attraverso la divisa, del militare che mi gridava gli ordini. Le luci abbaglianti dei fari dei loro gommoni. I mitra di fronte al mio viso“, descrive Croatti quei primi attimi di panico.
L’ordine era chiaro: non reagire, non opporsi, non essere offensivi. Ma la tensione cresceva. “Ci eravamo preparati a questo – ha spiegato -, simulando, per esempio, di dover restare pancia a terra con le mani legate dietro la schiena per almeno venti minuti, oppure, esercitandoci in caso di abbordaggio su come posizionarci: salvagente, mani in alto e le donne, spesso vittime di stupro in queste situazioni, lontane dalla scala che porta al sottocoperta”.
Una volta imprigionati in una sorta di hangar, il racconto diventa crudo: “Ci hanno umiliato, presi in giro, privato dell’acqua, hanno lanciato in faccia le medicine perquisite a un signore anziano. Ho visto due ragazze con i polsi fasciati, un altro bendato, ultra sessantenni lasciati a terra. A me e ad altri politici hanno portato via il passaporto. Non ci hanno permesso di vedere l’ambasciatore. Ogni volta che provavamo a chiudere gli occhi, ci risvegliavano“.
“Essendo politici, non volevano che vedessimo cosa accadeva agli altri attivisti – ha spiegato Croatti -. Eravamo un fastidio da rimuovere. Quindi ci hanno portati in aeroporto per rispedirci in Italia. Nemmeno lì l’umiliazione è terminata: anche sull’aereo alcuni passeggeri ci hanno urlato addosso e fatto il dito medio”.
Il suo racconto si chiude con una riflessione che è insieme politica e morale: “L’unico scudo che avevamo erano le persone là fuori, nelle piazze, le loro voci, i loro occhi. Senza di loro saremmo scomparsi davvero. Ricordatevi quanto siete stati importanti, la flotta ha funzionato solo perché eravamo tutti uniti. Il nostro obiettivo era impedire che il mondo si girasse dall’altra parte, ci siamo riusciti. Questo percorso va protetto, con le manifestazioni, con la presenza, con la verità dei racconti. Perché la Flotilla continua ogni volta che qualcuno decide di non restare in silenzio”.
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