Negli ultimi mesi, il “ciuccio per adulti” è diventato un oggetto virale: venduto su piattaforme online, esibito da influencer, mostrato con ironia o orgoglio nei video su TikTok. Dalla Cina al Brasile, fino agli Stati Uniti, sempre più persone dichiarano di usarlo come rimedio contro stress, insonnia e ansia. Una tendenza che lascia perplessi e fa intravedere qualcosa di più profondo: una società che sembra regredire, anziché maturare.
Il gesto di succhiare un ciuccio richiama i primi mesi di vita, quando l’infante non ha ancora accesso alla parola e trova sollievo nella suzione. Per l’adulto che lo riscopre, non si tratta di gioco ma di un rifugio: un modo per calmarsi quando il peso del vivere appare insopportabile. È ciò che in psicoanalisi possiamo definire regressione simbolica: un ritorno a un gesto primitivo per difendersi dall’angoscia.
La psicoanalisi ci ricorda che i sintomi non appartengono solo al singolo, ma sono sempre anche sociali. In questo caso, il mercato ha intercettato un bisogno e lo ha trasformato in un oggetto da vendere: il ciuccio diventa prodotto di massa, con tanto di varianti colorate e di design. Non è una cura, ma una risposta consumistica a un disagio diffuso, che rinforza la dipendenza anziché affrontarne le cause.
In fondo, il ciuccio è un feticcio che prova a colmare un vuoto. Ma quel vuoto, in quanto mancanza, è ciò che fonda il desiderio e la possibilità di crescere. Una società che spinge gli adulti verso il ciuccio mostra la propria difficoltà a tollerare l’incompiutezza, il rischio, l’incertezza. Si preferisce un sollievo immediato, anche infantile, piuttosto che confrontarsi con il lavoro psichico e relazionale che l’ansia richiedere.
Per questo il fenomeno del “ciuccio per adulti” va letto come un sintomo sociale. È il segnale di una società che infantilizza i suoi membri, li mantiene in uno stato di dipendenza e li invita a tamponare il disagio con oggetti pronti all’uso. Il problema non è il ciuccio in sé, ma ciò che rappresenta: la difficoltà di diventare adulti in un mondo che, paradossalmente, non vuole adulti ma consumatori eternamente bambini.
Come psicoanalista, credo che la vera sfida non sia giudicare chi usa il ciuccio, ma interrogare ciò che il gesto mette in scena. È il segno di un malessere che non trova parola. La psicoanalisi ci ricorda che nessun oggetto – per quanto rassicurante – potrà mai colmare il vuoto strutturale che abita ogni essere umano. È proprio accettando quella mancanza, e dandole parola, che si apre lo spazio di una vera progressione.
Ma c’è un ulteriore nodo: che adulti possono essere questi soggetti, se loro stessi rimangono ancorati a un bisogno infantile? Il genitore, per definizione, dovrebbe aiutare il figlio a separarsi, a tollerare l’assenza e a fare i conti con il limite. Se però l’adulto si rifugia nel ciuccio, rischia di non incarnare quella funzione simbolica, diventando più “compagno di gioco” che guida. In questo senso, il ciuccio per adulti non riguarda solo chi lo usa, ma mette in questione il futuro stesso della trasmissione tra le generazioni: come crescere figli autonomi, se gli adulti stessi restano bloccati in una forma di adultescenza?
Ecco perché questa moda, al di là della curiosità o dell’ironia, ci interroga come società. Non si tratta di un capriccio individuale, ma di un sintomo collettivo: quello di un mondo che fatica a crescere, che preferisce un sollievo immediato alla fatica di pensare, e che rischia così di lasciare i propri figli senza veri adulti a cui guardare.
Chiara Baratelli, psicoanalista lacaniana e sessuologa
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