di Silvia Gangitano
Come possiamo raccontare il mondo interiore che abitiamo, in un tempo che sembra crollare sotto il peso del cambiamento climatico, delle guerre e degli estremismi? Da questa domanda è partito l’incontro “Un anno con Vinicio Capossela”, che ha visto il cantautore dialogare con Giovanni Ansaldo e con lo studioso Alessandro Portelli. Una conversazione intensa, tra letteratura, impegno civile e la ricerca di un linguaggio capace di dire ancora speranza.
Il punto di partenza è stato il tema dello sciopero, in particolare quello del 22 settembre, quando in Italia migliaia di persone si sono mobilitate per manifestare vicinanza al popolo palestinese.
Capossela ha ricordato con emozione quel giorno: “Mi ha colpito perché era un giorno lavorativo. Scioperare significa rinunciare alla paga, ma anche scegliere di dedicare il proprio tempo a qualcosa che si ritiene giusto. È stato uno sciopero contro la guerra”. Da questa riflessione, Capossela ha evocato il romanzo Il tallone di ferro di Jack London: “Nel libro c’è una profezia: i lavoratori del mondo si fermano e così fermano la guerra. È un’utopia, certo, ma non così lontana. Eppure oggi la notizia non è più la partecipazione o la solidarietà, ma solo ‘gli scontri’ o ‘il weekend lungo’. Si perde il senso di ciò che davvero conta”.
Il professor Alessandro Portelli ha approfondito questo richiamo letterario: “Il tallone di ferro è un libro a più strati. Da un lato racconta il mondo popolare e la rabbia che si trasforma in forza collettiva; dall’altro, nelle note a margine, descrive un futuro in cui la rivoluzione è già avvenuta. Quello che manca oggi è proprio il passaggio intermedio: come ci si arriva a quella fase. Abbiamo smesso di immaginare, e quindi non riusciamo più a raccontarla”. Portelli ha riconosciuto in Capossela la capacità di conservare questa tensione tra sogno e realtà, utopia e rabbia, con la forza di chi continua a dare voce agli ultimi: “Nei suoi scritti e nelle sue canzoni riesce a far vivere il sogno e la rabbia insieme. Lo sciopero che ferma la guerra è un’immagine utopica, ma anche un invito alla dignità umana. Bisogna dire basta, perché dal punto di vista umano non se ne può più”.
Capossela ha poi introdotto un’altra immagine potente: la “Flotilla”, la nave della speranza, ispirandosi a When the Ship Comes In di Bob Dylan, scritta nel 1964 durante i grandi movimenti per i diritti civili: “È una nave che ha gli occhi del mondo puntati addosso. Viaggia sulla schiuma festante, i pesci le sorridono, divide il mare sull’onda della certezza della vittoria. Non trasporta solo aiuti umanitari, ma anche la speranza: apre un varco nelle coscienze, ci fa sentire l’urgenza della giustizia. A volte nelle azioni c’è una poetica che va oltre la cronaca”.
Sul palco, Capossela ha cantato la versione italiana del brano di Dylan: “La nave — ha aggiunto — è da sempre simbolo di salvezza, dall’arca di Noè fino alle traversate di oggi. Ogni nave è un gesto di speranza, una scommessa su un futuro possibile”.
Il dialogo è poi approdato al tema della memoria e del ruolo della canzone come strumento di testimonianza. Portelli ha ricordato i moti popolari di Reggio Emilia del 1960, durante i quali cinque manifestanti furono uccisi. A quella tragedia Fausto Amodei dedicò la canzone Per i morti di Reggio Emilia: “Senza quella canzone non avremmo così viva quella memoria. In Italia abbiamo avuto una grande tradizione di canzone anarchica e popolare, ma non è sufficiente. Quelle canzoni ci ricordano che la storia degli oppressi non deve essere dimenticata”.
Ha poi citato il gruppo Operai E Zezi di Pomigliano d’Arco, che negli anni Settanta portava nei teatri e nelle piazze le voci della fabbrica: “Quando ti tolgono ogni strumento di comunicazione, l’unica cosa che non possono toglierti è la voce. Quando ti vietano di scrivere, puoi solo risuonare i boschi con la tua voce. Ci ricordiamo della strage di Reggio Emilia perché qualcuno ha scritto una canzone. Il problema è che oggi facciamo fatica a trovare parole e melodie all’altezza di quello che sta succedendo”.
E ha concluso con una riflessione che è diventata il filo conduttore dell’incontro: “Da sempre il parlare e il cantare servono a impedire che la storia degli oppressi venga cancellata. La voce, almeno quella, non ce la possono togliere”.
L’incontro si è chiuso tornando al tema iniziale: le parole per dire il mondo. Per Capossela e Portelli, oggi la sfida più urgente è proprio questa: trovare linguaggi che non siano solo cronaca, ma immaginazione condivisa. “Non c’è più niente da dire se non il perché – ha detto Portelli – ma siccome il perché è difficile da trovare, dobbiamo almeno raccontare il come”.
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