Spettacoli
6 Ottobre 2025
Il bassista e la sua storica band tornano il 22 ottobre al Comunale a sostegno dell'Associazione Giulia: "La musica strumento di solidarietà"

Elio e le Storie Tese a Ferrara. Faso: “Il mondo avrebbe bisogno di Shpalman”

di Elena Coatti | 5 min

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Ferrara si prepara a una serata speciale: mercoledì 22 ottobre alle 21, il Teatro Comunale “Claudio Abbado” ospiterà la 17esima edizione di “Un angelo di nome Giulia”. L’evento, dedicato alla memoria della piccola Giulia e all’impegno dell’omonima Associazione Odv, sostiene progetti di psiconcologia pediatrica, laboratori di musicoterapia, arte e teatro nelle cure palliative pediatriche e percorsi di neuropsicologia per bambini e adolescenti.

Sul palco saliranno Elio e le Storie Tese, una delle band più originali e amate della musica italiana, capaci da sempre di intrecciare virtuosismo e ironia, leggerezza e riflessione. Per l’occasione abbiamo intervistato Faso, pseudonimo di Nicola Fasani, bassista storico del gruppo, che ci ha raccontato non solo il senso di questa partecipazione, ma anche riflessioni sul ruolo della musica, sul valore dell’ironia e sul legame speciale con Ferrara.

Faso, avete toccato spesso Ferrara con i vostri spettacoli. Che rapporto avete con questa città?

Ogni volta che siamo in tour ci concediamo una passeggiata notturna dopo. È diventata quasi un piccolo rituale: finito lo spettacolo, usciamo a girare per il centro e ci godiamo la città di notte. Ferrara al buio, con le sue luci e le strade più tranquille, ha un fascino incredibile, forse persino più che di giorno. Certo, capita che molti locali siano già chiusi, ma è comunque un modo diverso di vederla. E devo dire che il nostro lavoro ci regala anche queste opportunità: viaggiare tanto, scoprire pezzi d’Italia che spesso, con i tempi stretti, non riusciamo a visitare come vorremmo, e ogni volta restare sorpresi dalla bellezza del nostro Paese. In questo senso capisco bene i turisti che vengono dall’estero: l’Italia continua a sorprendere anche chi la vive per lavoro.

Questa volta tornate per un’occasione speciale: “Un angelo di nome Giulia”. Perché avete deciso di esserci?

È un piacere assoluto. Perché parliamo di un percorso difficile, complicato, soprattutto per le famiglie coinvolte. Sapere che la nostra musica può contribuire a dare una mano in un contesto del genere ci riempie di orgoglio. Non c’è nulla di più bello che mettere il nostro lavoro al servizio di una causa così importante.

L’Associazione Giulia lavora molto con la musicoterapia e con laboratori artistici e teatrali. Qual é, secondo te, la forza della musica in questi contesti?

La musica ha tante forze diverse. Una è molto concreta: può diventare uno strumento per raccogliere fondi e sostenere progetti come questo.  Mi viene in mente George Harrison, che è stato uno dei primi grandi artisti a pensare che la musica potesse servire a dare una mano, con il famoso Concerto per il Bangladesh. Era un concetto nuovo e bellissimo: trasformare un concerto in un gesto di solidarietà. E poi c’è un altro livello: la musica come cibo per lo spirito. È qualcosa che ti nutre dentro, che ti cambia l’umore. Mia nonna me lo spiegava con una semplicità meravigliosa: “Dopo aver ascoltato musica, devi stare molto meglio di prima”. È di una saggezza antica, che però resta verissima. E noi, fin dagli inizi, abbiamo sempre pensato che questo fosse l’effetto che la musica deve avere: farti stare meglio.

Oggi però sembra che la musica a volte non riesca più a toccare così profondamente.

Manca, sì, e manca tantissimo. Non che la musica non debba parlare di temi difficili o dolorosi: è giusto che lo faccia. Ma è importante anche quando riesce a toccare tante emozioni diverse: commuoverti, farti ballare, farti riflettere. Penso all’effetto liberatorio di un brano come “September” degli Earth, Wind & Fire. Nessuno in discoteca ti chiede cosa dica il testo: ti lasci andare, sorridi, ti muovi. E quello fa bene al corpo e allo spirito. Certo, non è “La guerra di Piero” di De André per profondità di testo, ma in quel momento fa comunque bene. Perché la musica non è solo parole: è emozione, è movimento, è vita.

Voi avete fatto dell’ironia una cifra distintiva. Può essere anche una forma di resistenza al dolore?

Secondo me sì, ridere fa bene. Anche nelle situazioni difficili, l’ironia non risolve, ma aiuta. Ti permette di respirare, di prendere un attimo di leggerezza. E a volte fa riflettere quanto un discorso serio. Mi viene in mente Fantozzi. Io mi sganasciavo davanti alle sue disavventure, ma c’erano anche momenti che lasciavano malinconia. Villaggio, con l’ironia, era capace di raccontare la sottomissione dell’uomo all’azienda, al potere, all’ufficio. E proprio perché ti faceva ridere, quel messaggio arrivava forte. Questo è il potere dell’umorismo: aprire spiragli anche quando la realtà è pesante.

Se pensi al repertorio degli Eelst, c’è una canzone che per te ha un potere terapeutico?

Personalmente non ascolto mai le nostre canzoni per tirarmi su di morale: preferisco ascoltare artisti che mi accompagnano da sempre, come Peter Gabriel o i Genesis. Però capita spesso che la gente mi dica: “Ero giù, ho messo su Servi della Gleba ed è cambiata la mia giornata”, oppure Parco Sempione. Questo è bellissimo, perché significa che ogni brano, anche il più ironico, può diventare terapeutico se arriva nel momento giusto. La musica è questo: ti lega a ricordi, a stati d’animo. Una volta ero all’Isola d’Elba, giovanissimo, dopo una notte passata a suonare. Era l’alba, avevo il walkman e ascoltavo musica sulla spiaggia. È partita In Your Eyes di Peter Gabriel. Ero stanco morto, ma quella musica mi riempì l’anima. È l’effetto che ti lascia: ti fa stare bene, ti fa rivivere emozioni”.

Se dovessi portare un vostro brano dentro un laboratorio di musicoterapia, quale sceglieresti?

Probabilmente proporrei Shpalman. È un rock festoso, semplice da suonare ed è amato dai bambini. Racconta un mondo in cui i problemi non si risolvono con la violenza, ma con una torta di cacca spiattellata in faccia al bullo di turno. È una visione buffa, ma anche molto seria: immaginare un futuro dove non ci si ammazza, ma ci si prende un po’ meno sul serio. Ai bambini piace perché è immediata: ti viene da ridere, ma dietro c’è un messaggio di pace e leggerezza.

Cosa vedremo il 22 ottobre al Comunale di Ferrara?

Stiamo preparando una scaletta bella piena, ricca di energia e di musica. Vogliamo che sia una festa, più che uno spettacolo narrativo. Niente troppi discorsi: tanta musica, tanta intensità e la speranza che alla fine il pubblico esca dicendo “wow, stasera ho sentito cantare e suonare di brutto!”. Ma soprattutto che continui a dare una mano e a sostenere queste iniziative, oltre che recuperare il piacere della musica suonata dal vivo. In un’epoca un po’ buia per l’arte, la musica ha bisogno di essere vissuta, suonata, condivisa. Noi ce la mettiamo tutta.

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