Attualità
20 Settembre 2025
Al convegno in sala Estense, gli interventi dei genitori, degli amici, dei giudici e dei giornalisti. Ma resta la domanda: "Cosa accadrebbe oggi a un altro Aldrovandi?"

Patrizia Moretti: “Vent’anni dopo, le cose stanno peggiorando”

di Elena Coatti | 5 min

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Venti secondi in piedi, in silenzio, per i colleghi giornalisti che lavorano rischiando la vita dalle zone di conflitto. Poi l’applauso, lungo, quasi a sciogliere la tensione. Così si è aperto, nella Sala Estense, l‘incontro formativo organizzato dall’Associazione Stampa Ferrara per i suoi 130 anni, nel segno di un anniversario che, ancora, ferisce: i vent’anni dall’uccisione di Federico Aldrovandi (25 settembre 2005). Subito la voce dei genitori, Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi, prima di lasciare la parola ai relatori. “La stampa – ha detto Moretti – dopo difficoltà iniziali è stata anche la voce di Federico, contribuendo alla giustizia. Ma oggi, nonostante tanto impegno, non vedo cambiamenti sostanziali. Anzi, le cose stanno peggiorando: leggi più restrittive, i quattro poliziotti già rientrati in servizio e nulla che davvero prevenga il ripetersi di ciò che è accaduto”. Lino ha invece ripercorso la dolorosa notte del 2005, fino ad osservare che “se Federico quella notte non avesse incontrato quella Polizia, oggi sarebbe vivo. A me, Patrizia e Stefano rimarrà per sempre quell’amaro in bocca indescrivibile, con quel dolore opprimente sempre lì a martoriarti ogni giorno, anima e cuore. Condannati a una pena che non avrà mai fine. Quasi che a noi, invece, fosse stato riservato l’ergastolo“.

Prima dell’avvio della discussione sulle “sei parole” del convegno – giustizia, pena, polizia, rumore, città, piazza – i saluti istituzionali: il prefetto Massimo Marchesiello ha definito l’appuntamento “un’occasione per una riflessione importante”, l’assessora Angela Travagli, a nome del Comune che ha concesso il patrocinio, ha richiamato “il valore umano del ricordo” e ricordato che il 25 settembre verrà intitolato a Federico un giardino adiacente a via Ippodromo. In platea, accanto ai genitori, anche Fabio Anselmo, Ilaria Cucchi, Paolo Calvano, Domenico Bedin.

A coordinare i lavori Alberto Faustini, che avrebbe voluto una settima parola: verità. “Non emerge mai fino in fondo”, ha detto proponendo allora la memoria come bussola: “È ciò che ci impedisce di dimenticare da dove veniamo e chi ha cambiato strada. In quei giorni, a Ferrara, cambiammo anche noi giornalisti. Parole che restano, non che volano in rete. La memoria vive solo se serve al presente”.

Sulla parola “giustizia”, il magistrato Francesco Maria Caruso ha ripreso la sentenza definitiva della Cassazione (21 giugno 2012): un testo “che andrebbe letto e spiegato nelle scuole di polizia insieme al codice etico delle polizie europee”. Non un attacco alla Polizia, ma un richiamo a una polizia democratica, consapevole dei limiti dell’uso della forza: extrema ratio, proporzionalità, alternative. “Il caso Aldrovandi non sarebbe diventato ‘caso’ se all’alba del 25 settembre si fosse compiuta un’onesta riflessione: raccontare i fatti, ammettere errori, non rifugiarsi nella verità alternativa del ‘tossicodipendente morto per sostanze'”. La lezione, ha insistito, è organizzativa e culturale: formazione, protocolli, selezione, ma anche rifiuto del corporativismo dell’idea (pericolosa) di potersi porre fuori dalla legge nel nome della legge.

In collegamento da Milano, Francesco Maisto ha spiegato perché, da presidente del Tribunale di Sorveglianza, nelle ordinanze sulle misure alternative per i condannati scelse parole come “menzogne, crudeltà, tortura”. La categoria giuridica non era allora tipizzata nel nostro codice: “Guardammo alla Corte Edu e ai suoi standard. Quindi trattamenti inumani e degradanti quando l’uso della forza non è necessario”. A pesare, per Maisto, fu la mancata assunzione di responsabilità: “Nessun gesto di autocritica, niente riparazione simbolica. In queste condizioni non c’era meritevolezza per i benefici”.

A fare da eco alle parole di Lino Aldrovandi, è arrivata la testimonianza dell’ex questore di Ferrara e poi vicecapo della Polizia Luigi Savina, che ha ripercorso quegli anni di tensione sociale e di ricucitura tra istituzioni e comunità cittadina. Uno sguardo dall’interno, utile a ricordare che dietro le divise ci sono scelte, culture professionali, e che la gestione degli errori è parte essenziale della fiducia pubblica.

La giornalista e podcaster Francesca Zanni, autrice di Rumore, ha raccontato la narrazione tossica delle prime ore: “Tutti definivano Federico un ‘drogato’, anche sui giornali”. Il suo lavoro ha invece provato a rimettere al centro le parole giuste, raccogliendo voci e documenti. Zanni è di Reggio Emilia e riporta il caso degli ultimi giorni, del ragazzo morto dopo che un agente di polizia ha usato il taser contro di lui. Da qui un monito ai giornalisti di oggi: “È già la terza vittima in un mese e io ho provato a leggere tutti gli articoli delle testate locali e le parole che venivano utilizzate non erano sempre le migliori. Le persone diventano pluripregiudicate, le vittime diventano gli esagitati e io vorrei tanto che noi recuperassimo il senso di umanità quando parliamo della perdita di una vita”.

Tiziano Tagliani ricorda che fu il sindaco Gaetano Sateriale ad adoperarsi per raccogliere le voci dei cittadini dopo quella terribile faccenda. “La svolta nelle indagini avvenne grazie alla testimonianza di Anne Marie Tsagueu, la prima ferrarese che parlò e che trovò il coraggio di dire ciò che aveva visto”. Da lì un’ampia mobilitazione, dalla manifestazione con istituzioni e società civile fino al difficile lavoro di ricostruzione della fiducia.

Per Andrea Boldrini, amico di Federico e portavoce del Comitato in sua memoria, la piazza è stata il ponte tra dolore privato e battaglia pubblica: “All’inizio eravamo pochi, quasi nel vuoto. Poi la piazza è cresciuta, ha unito mondi diversi. Oggi siamo una rete più raccolta, ma la risonanza è nazionale. Federico non è stato dimenticato”. E soprattutto: “Non è una vicenda di parte. È politica nel senso più altro: riguarda il rapporto tra cittadini e istituzioni, la trasparenza, il diritto alla verità”.

A ribadire che la memoria è la cifra che tiene insieme tutto, resta in sospeso una domanda scomoda, emersa più volte: “Cosa accadrebbe oggi se ci fosse un altro Aldrovandi?“. Tra decreti sicurezza, separazione delle carriere, diseguaglianze sempre più forti, la sala Estense ha restituito l’immagine di una comunità che non vuole archiviare, ma che si sente anche preoccupata per il futuro della società.

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