Dal 9 al 12 settembre 2025 il Consorzio Factory Grisù (via M. Poledrelli 21) diventa un’arena di parole con il Poetry Slam: quattro giorni di laboratori gratuiti (14 – 30 anni e Poetry Kids 8 – 13), incontri e spettacoli, con il campione mondiale Lorenzo Maragoni e una serata speciale creata per la città da Gennaro Màdera, Giuseppe Armillotta, Danna ed Eugenia Galli. Venerdì 12 lo slam finale: tre minuti a testa, versi liberi, solo corpo e voce, a scegliere è il pubblico-giuria.
Il festival è organizzato da Sara Draghi e Massimo Festi di Officina Teatrale A_ctuar e nasce nel 2022: dall’onda lunga di Palermo fino a Ferrara, dove ha messo radici, “per ricordare che la poesia vive quando esce dai templi e torna fra la gente”. Ma che cos’è questo “schiaffo poetico”? Lo abbiamo chiesto a Sara e Massimo.
Come avete scoperto il Poetry Slam e perché portarlo a Ferrara dal 2022?
“Per noi lo slam è nato da un incontro: Palermo, Ballarò, una poetessa slam e antropologa – Martina Riina – che lo usava nei quartieri difficili. Ce ne ha parlato e ci si è accesa una lampadina. Quella spinta creativa e sociale era esattamente ciò che cercavamo per il nostro lavoro coi giovani. L’abbiamo invitata a Ferrara, nel 2022 abbiamo fatto il primo laboratorio con finale slam: adesioni altissime, un’energia quasi fisica. Da lì il format è cresciuto, le scuole ci hanno chiamato, alcuni ragazzi che hanno partecipato sono arrivati persino ai campionati nazionali. Il bello? Vedere che un’idea portata per curiosità diventa movimento. Ma il poetry slam nasce come fenomeno underground, in particolare a Chicago dove Marc Kelly Smith è riconosciuto come padre fondatore. In Italia, invece, è stato Lello Voce a portarlo”.
Cosa significa, qui, “portare fermento”?
“Vuol dire rompere gentilmente gli argini. Offrire mezzi nuovi a chi si sente escluso: non teatro accademico, non danza con rigidi codici, ma una performance aperta dove la gente comune prende parola. Ci interessa il confine: quello in cui un ragazzo che non si è mai sentito “adatto” capisce che può urlare, sussurrare, balbettare il suo testo e farlo arrivare come meglio crede. È un terreno di sperimentazione e insieme una palestra di cittadinanza”.
Definite “spazi protetti” i laboratori in programma. Che cosa proteggete?
“Proteggiamo il diritto di esporsi e quello di essere ascoltati. Nei laboratori si lavora sia individualmente che collettivamente con giochi di scrittura, collage di parole, ascolto reciproco. In quattro giorni proviamo a far nascere almeno tre tesi: sono farina dei partecipanti, noi accompagniamo solo la messa in scena. Capita spesso che emergano storie difficili, tra disagi interiori, identità o bullismi, che qui trovano linguaggio. Non “curiamo” nessuno, ma creiamo le condizioni perché una voce esca e, per molti, è già terapeutico”.
Il percorso laboratoriale si conclude con una gara, giusto?
“Sì. Ma la competizione è un pretesto: scandisce la serata, ma vittoria vera è collettiva. Non vince la persona, vincono le parole. La giuria è scelta in platea, si vota da 1 a 10 dopo l’esibizione, si va per manche fino alla finale a tre. Intanto succede l’essenziale: si costruisce comunità. In tempi che ci disabituano all’ascolto, stare fermi tre minuti a sentire un’altra vita è rivoluzionario. Alla fine, non celebriamo un ego: celebriamo l’emozione condivisa”.
Lo slam ribalta l’idea che “la poesia è roba da intellettuali”?
“Assolutamente sì. A scuola molti hanno sentito la poesia come un altare. Qui scoprono che può abitare il linguaggio quotidiano, il rap, la voce rotta dall’emozione, la risata. Si può partire da Leopardi e finire in beat generation, passare da Marinetti e tornare al diario di oggi. La qualità? Non è un santino: è ciò che arriva. Non bello o brutto: ma ti raggiunge o non ti raggiunge. Questo sposta tutto”.
Come funziona una serata di slam?
“C’è un MC che tiene il ritmo e conduce la serata. Poi gli “sfidanti”, solo corpo e voce, testi inediti. Niente oggetti, costumi o musica. Puoi rotolare, danzare, entrare tra il pubblico: la tua “partitura” è il corpo che pronuncia parole. Cinque giurati in sala votano con decimali. Tra una manche e l’altra si cambia, si risale. È un rito laico: silenzio, risate, commozione si alternano. E il pubblico non è mai passivo: può dissentire, supportare chi ama, farsi trascinare”.
Nei laboratori avete sentito storie che vi hanno spiazzato?
“Tantissime. Adolescenti che trovano il coraggio di nominare ciò che li ferisce, ragazze e ragazzi che trasformano una ferita in poesia, altri che scelgono l’autoironia come scudo e come sorriso. La cosa più potente è vedere che nessuno, quando condivide, è più solo: lo capisci dallo sguardo degli altri mentre ascoltano. Sul palco capisci che la fragilità, esposta, diventa forza”.
Perché venire agli spettacoli?
“Per divertirsi e per ascoltare: lo slam è dolce e amaro, ti fa ridere e ti spiazza. Si esce – lo diciamo con ambizione – un po’ più gentili, con l’orecchio più aperto. Forse ti riconosci in una storia, forse trovi una parola che ti mancava. E capisci che le voci, insieme, possono farsi sentire molto lontano”.
Il sogno che avete davanti?
“Portare a Ferrara le finali nazionali del campionato. Stiamo lavorando per questo: non per la vetrina, ma per consolidare un sistema in cui i giovani – e non solo – sappiano che anche qui, a Ferrara, la poesia ha una casa viva”.