Yuleisy Cruz Lezcano, poetessa, infermiera e attivista impegnata nella sensibilizzazione sul tema delle morti sul lavoro, ha scritto una poesia per ricordare Hussain Mazammal, deceduto nella notte tra il 21 e il 22 agosto a Molinella, schiacciato da un muletto mentre era al lavoro.
Diario senza scrivere
(Per Hussain Mazammal)
Qui nel giorno di ieri,
nel quadrante sfocato del tempo,
dove le sirene spuntano
come fiori rovesciati in un cantiere,
la morte si è compiuta nel punto cieco
di una rotazione dimenticata
sull’asse delle ore perdute.
Un vento umido, il respiro
stanco dell’Est che si infila
tra i capannoni, case, biciclette
legate ai pali,
solleva la polvere e l’eco
d’un nome che non sapevamo dire.
Hussain, nella notte
la tua vita si è stretta
dietro, sotto, compresa
dalla falce d’acciaio
tra le ruote del lavoro
che non conosce tregua,
né differenza tra errore e destino.
Lì, tra sacchi di pellet
e turni di ombre, il tuo corpo
ha toccato il margine
invisibile della realtà:
lì, dove l’aria non ha più giustizia,
e il freno è gesto di abbandono,
lì, dove il muletto gigante bestia
di labirinto d’ordini e silenzi.
La morte — non quella dei poeti,
né degli eroi — quella secca, esatta,
invisibile ai notiziari e ai calendari,
si impasta ogni notte in queste fabbriche
come farina nelle corazza dei vivi.
Nessun cielo si è rotto.
Solo un prisma, un margine,
l’illusione che l’uomo abbia tempo
di accorgersi del proprio respiro
prima che lo spazio collassi.
Nel tuo ultimo istante,
forse i pianeti hanno tremato,
forse non in alto,
ma nei piedi delle macchine,
nelle scosse elettriche
dei circuiti d’aria compressa,
nei ritmi ciechi
del “basta che funzioni”.
Ora, là dove eri uomo,
sei simbolo inciso nel metallo molato,
sei il lampo freddo che squarcia
il silenzio nel badge timbrato per sempre.
E noi?
Noi, “onesti insensibili”,
che attraversiamo i giorni
senza nomi, senza liste,
senza chiederci chi è caduto ieri
tra le linee di produzione?
Ci resta questo:
il diario di un giorno non scritto,
una scaglia di tempo
rimasta incastrata tra le ruote,
una goccia d’aria rotta
che ancora vibra,
che ancora domanda.
Ho scritto questa poesia per dare corpo a un’assenza, perché la morte di Hussain Mazammal, giovane operaio migrante, non è un evento da cronaca, ma una fenditura nel nostro sistema percettivo. Una frattura che va detta, simbolizzata, perché solo il simbolo riesce a portare nel linguaggio ciò che al linguaggio sfugge: la vita spezzata, l’indifferenza industriale, la solitudine di chi lavora nei margini del visibile.
Ho voluto che la poesia fosse diario e traccia: diario non come narrazione cronologica, ma come deposito di un istante assoluto, quello della morte “non calcolata dei pianeti pesanti” — immagine per indicare tutto ciò che si muove sopra le nostre vite senza mai toccarle: l’economia, l’organizzazione del lavoro, la distanza tra chi decide e chi esegue. Nel mio testo, la fabbrica non è solo luogo, ma organismo cieco.
Il muletto diventa figura mitica, che abita un labirinto di turni, norme non rispettate, negligenze che non hanno colpevoli visibili. Il vento, la polvere, l’aria umida dell’estate sono i sensori sensibili di una realtà che tutti attraversiamo, ma da cui siamo emotivamente disconnessi. La poesia, allora, non vuole spiegare l’accaduto, vuole restare sull’accaduto, vuole ascoltare lo spazio che si crea dopo il trauma, la vibrazione che rimane quando la macchina si ferma ma la morte continua a girare.
Yuleisy Cruz Lezcano
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