I turisti apprezzano l’assenza di overtourism a Ferrara. Una vera “bellezza senza folla”, distante dal caos delle mete turistiche più fotografate e postate sui social. Eppure, in città e a livello nazionale, la politica si divide sui numeri del turismo. La maggioranza rivendica presenze record, l’opposizione parla di crisi e cali. Ogni nuovo dato diventa munizione per uno scontro verbale che sembra ridurre il turismo a una gara di contatori.
Ma secondo Alex Giuzio, giornalista esperto di ecologia, turismo e lavoro, collaboratore de il Manifesto e Altreconomia, il problema è proprio qui: “I numeri, presi da soli, non dicono nulla. E alla fine li usi come vuoi. La vera domanda è: che modello di turismo abbiamo e che impatti produce?“.
Figlio di albergatori e cresciuto in una località balneare romagnola, Giuzio ha vissuto sulla propria pelle gli effetti dell’overtourism: prezzi alle stelle, affitti introvabili, centri storici resi invivibili. Domenica 31 agosto, alle 16:15, sarà ospite del Buskers Reading organizzato dal Consorzio Factory Grisù e dall’associazione 451, in piazza Trento Trieste, per presentare, insieme al giornalista di Estense.com Pietro Perelli, il suo ultimo libro “Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi del tempo libero“. Lo abbiamo intervistato, partendo proprio dal nodo Ferrara.
Che cosa si perde quando il dibattito politico si riduce a “più o meno turisti”?
“Si perde la sostanza. Il turismo è un’economia povera: concentra la ricchezza in poche mani, mentre i lavoratori subiscono salari bassi, precarietà, sfruttamento. È un’economia estrattiva: prende valore dal territorio e lo consuma fino a renderlo meno vivibile, per chi ci vive e per chi lo visita. Ed è fragile: basta una crisi sanitaria, come è stato con la pandemia Covid, o climatica per far crollare la domanda. Puntare sul turismo come unica leva di sviluppo è rischioso: funziona solo se è una delle tante economie di un territorio”.
Quindi il problema non sono i dati in sé, ma il modello dietro i dati?
“Esatto. I numeri li si usa come si vuole, ma non raccontano tutto. In Emilia-Romagna il modello turistico su cui si è costruita l’identità negli ultimi ottant’anni è in crisi: sono cambiate le abitudini, c’è più domanda di esperienze mordi e fuggi e luoghi naturali, senza considerare il problema più generale dei salari sempre più bassi. Il caldo estremo rende meno attrattive certe destinazioni estive, spostando i flussi verso la montagna. E a Ferrara, con le previsioni sull’innalzamento del livello del mare, ha senso continuare a investire come se nulla stesse per cambiare radicalmente?”
Anche in città il caldo estremo è un fattore. Quanto conta la gestione dello spazio urbano?
“Conta moltissimo. Il verde è l’elemento che rende una città vivibile: abbassa le temperature, migliora la qualità dell’aria, aumenta persino il valore degli immobili. Negli ultimi decenni abbiamo sacrificato il verde, sia negli spazi urbani che nelle spiagge. Ma d’estate, con ondate di calore sempre più frequenti, i centri storici diventano isole di calore poco piacevoli. Servono alberature diffuse, rifugi climatici, spazi d’ombra distribuiti in tutta la città”.
Se non i numeri, quali indicatori bisognerebbe usare per valutare il turismo?
“Per prima cosa, capire come arrivano i turisti. Il trasporto è la parte più impattante: un volo low cost inquina molto più di un viaggio in treno. Ci sono città all’estero che incentivano chi arriva in treno offrendo sconti importanti. Tuttavia, è bene considerare il progressivo impoverimento delle famiglie italiane, che non hanno la possibilità di affrontare un viaggio più ecologicamente sostenibile se costa il triplo del trasporto aereo. Si potrebbe però favorire la mobilità non inquinante, il turismo di prossimità e popolare: attira presenze senza incentivare spostamenti a lunga distanza e costosi, ed è più inclusivo. Puntare solo sul “turista ricco” porta a un turismo escludente e concentrato, che rischia di espellere i residenti”.
Ferrara punta molto su grandi eventi e mostre mainstream. Qual è il rischio?
“Il rischio è che diventino fuochi di paglia: portano tanta gente in pochi giorni, poi non resta nulla. E un evento replicabile altrove non rafforza l’identità della città. La forza di un territorio sta nelle sue peculiarità: natura, gastronomia, paesaggio. A Ferrara questo significa anche il Delta del Po, Comacchio, le valli, oltre ai monumenti storici. Puntare solo sui grandi nomi desertifica il resto”.
Nelle mete più sovraffollate, in Italia e all’estero, gruppi di attivisti si muovono al grido di “tourists go home“, spesso aggredendo verbalmente i turisti. È giusto colpevolizzare il singolo?
“No. Il turista risponde a un’offerta: se vendi la città come un prodotto da consumare in poche ore, attirerai un turismo poco rispettoso. È il contesto – politiche e marketing – a modellare i comportamenti. Meglio puntare su campagne di sensibilizzazione”.
Nel libro scrivi che il turismo sostenibile non esiste. Perché?
“Finché il turismo resta inscritto in un’economia di crescita illimitata, non potrà mai essere sostenibile: anche se lo fosse nei metodi, ci sarebbe comunque un sovraffollamento e consumo di risorse. La sfida è ridurlo e redistribuirlo, ripensando il tempo libero e il lavoro. Se avessimo più tempo libero distribuito nell’anno e meno concentrazione di ferie in poche settimane, i luoghi sarebbero più vivibili e il turismo meno compulsivo”.
C’è qualcosa che possiamo fare a livello individuale?
“Quando possibile, muoversi nel modo meno impattante possibile. Viaggiare vicino quando si può, tornare più volte negli stessi luoghi per conoscerli davvero. Ma serve consapevolezza: il problema non si risolve con scelte individuali, è strutturale e va affrontato con politiche pubbliche che riducano gli impatti e favoriscano un turismo a misura di territorio”.