Portomaggiore
13 Agosto 2025
Yousef Hamdouna, palestinese volontario della ong EducAid, racconta la strage quotidiana nella Striscia

“L’unico modo di restare umani a Gaza è morire”

di Redazione | 4 min

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Portomaggiore. “Quando tutti tacciono tocca ai poeti parlare”. È con una citazione di Pasolini che Marco Zavagli, direttore di Estense.com, apre il dibattito “L’inferno nella Striscia di Gaza”, tenutosi domenica 10 agosto presso “Festissima”, la festa del Partito democratico di Portomaggiore.

“E i poeti hanno parlato. E alcuni sono morti per questo”. Zavagli ha in mano il libro “Il loro grido è la mia voce”, edito da Fazi Editore con il sostegno di Emergency. All’interno sono raccolti i versi di alcune delle voci palestinesi più importanti.

Come quella di Hend Joudah, nata in un campo profughi, fa presente il giornalista, che si chiede “cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra”. “Significa vergognarsi” è la sua risposta.

O come la voce di Dareen Tatour, “incarcerata per una poesia”. O quella di Haidar Al Gazhali, che parla di due genitori che scelsero il nome più breve per loro figlio, affinché “si addicesse alla sua statura coperta dal sudario”.

È quindi il sindaco Dario Bernardi a portare i saluti della comunità e a spiegare il significato di questa iniziativa: “siamo abituati a echi di guerre lontane, ma Gaza è talmente oltre il concepibile che ha rotto il muro di silenzio, anche mediatico, attorno a questa strage continua. È nostro dovere parlarne. Parlarne il più possibile”.

Una strage continua che Ilaria Baraldi, referente provinciale delle Donne democratiche, non ha remore a definire genocidio: “dopo oltre 60mila vittime, decine di migliaia di feriti, mutilati, traumatizzati e la malnutrizione causata del blocco degli aiuti umanitari, e ora con il nuovo piano di occupazione totale annunciato da Netanyahu, possiamo parlare di suicidio della democrazia”.

E “mentre il governo Meloni tace”, Baraldi ricorda che già 147 Paesi (e a settembre si aggiungeranno Francia, Regno Unito e Malta) sui 193 che fanno parte delle nazioni Unite hanno riconosciuto lo Stato di Palestina israeliana”.

La dem fa presente che “come Pd chiediamo l’embargo totale di armi e la sospensione degli accordi di cooperazione e il riconoscimento della Stato palestinese”.

E alla domanda se si può parlare di genocidio a Gaza Baraldi affida la replica alla definizione del termine stesso: “è una categoria che può essere usata ogni volta che ci si trova di fronte al rischio strutturale dell’annientamento di un popolo, di una cultura, di forme di vita”.

E di annientamento lento e continuo parla Yousef Hamdouna, 43 anni, volontario della ong EducAid, organizzazione che da più di 20 anni porta avanti progetti dedicati alle persone con disabilità in diversi Paesi in via di sviluppo. Ma è soprattutto cittadino di Gaza, dove ancora vivono i suoi fratelli e le sue sorelle.

Era uscito dalla Striscia poco prima del 7 ottobre 2023. Fino ad allora faceva la spola tra la sua terra e l’Italia, dove lavora. Con lo scoppio della rappresaglia non gli è stato più possibile rientrare. E da allora “ogni giorno piango un lutto”.

Hamdouna racconta delle sue figlie. La prima è nata in Italia. Nel 2010 decide di rientrare a Gaza sotto assedio e vi rimane per un anno. “Ho deciso di tornare in quella prigione. Mia figlia non ha deciso”. Fu allora che, per spiegarle il significato di quel ritorno, sotto le bombe le scrive ogni giorno una lettera. Carta dopo carta raccolse raccolse “163 lettere tenute in un diario”. Ma quel diario sua figlia non l’ha mai potuto leggere, perchè “è finito sotto le macerie del mio studio”.

La seconda figlia nasce prematura. “Sua madre ha respirato nel 2014 il fosforo bianco. Lei è nata disabile, come tanti suoi coetanei nella Striscia”.

C’è poi suo nipote, incaricato di raccogliere la farina in una delle aree di distribuzione. “Il via è dato dal colpo di proiettile di fucile di un soldato israeliano. È allora che tutti devono correre verso i sacchi di farina il più velocemente possibile. A un certo punto l’esercito israeliano, con cecchini e droni, inizia a sparare sulla folla affamata. In quel momento bisogna essere svelti a buttarsi a terra. Anche sopra i cadaveri di chi non è stato così veloce”.

Suo nipote non torna a casa da cinque giorni: “devono sacrificare una persona per far vivere una famiglia. O torna con un sacco sulle spalle o dentro un sacco”.

Anche a un suo amico, volontario nella protezione civile a Gaza per salvare le persone intrappolate sotto le macerie o, più spesso, per dare degna sepoltura ai corpi senza vita trovati per strada, è toccata in sorte quell’ignobile lotteria.

“L’ho sentito pochi giorni fa – racconta -. È tornato a casa a mani vuote. Ma non piangeva per quello. Piangeva perchè lui, da mesi impegnato a restituire dignità ai morti, si è reso conto che durante quella corsa caotica verso un sacco di farina era passato sopra a diversi cadaveri. «Nemmeno li ho visti» mi ha detto”.

“È la prima volta che viene utilizzata la fame contro la popolazione di Gaza. L’intento è distruggere l’identità delle persone, l’identità collettiva”. Ecco perché, secondo Hamdouna, “oggi forse l’unico modo di restare umani a Gaza è morire”.

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