Il Senato ha approvato la cosiddetta “Legge sul Femminicidio”, presentata come una risposta decisa e definitiva alla crescente violenza contro le donne. Un provvedimento che introduce nuove aggravanti, inasprisce le pene e mira a rendere più tempestiva la risposta della giustizia. Ma mentre il governo parla di “svolta storica”, da più parti si sollevano dubbi sulla reale efficacia della norma. Tra le voci più critiche, quella dell’avvocato Fabio Anselmo che, attraverso un post sui suoi social, ha messo in discussione l’impatto concreto della legge, accusandola di essere poco più che uno strumento di propaganda.
“Una legge intitolata al femminicidio non ferma i femminicidi”, ha scritto l’avvocato. “Chi ha ucciso Giulia Cecchettin non si sarebbe fermato per paura di un ergastolo: quella pena già esisteva. E viene già inflitta”. E prosegue: “I centri antiviolenza continuano ad essere lasciati soli, senza finanziamenti, senza strutture adeguate, senza personale sufficiente”. Secondo il legale, infatti, il vero cuore della prevenzione è rappresentato dai centri antiviolenza, realtà spesso dimenticate, che lavorano ogni giorno con strumenti insufficienti e fondi scarsi.
“Un centro antiviolenza accoglie le donne che vogliono uscire da una relazione abusante – scrive Anselmo -. Le ascolta. Le protegge. Le accompagna in un percorso lungo e difficile. Offre supporto psicologico, consulenza legale, orientamento al lavoro, protezione per i figli, inserimento in case rifugio. È lì quando lo Stato non c’è”. Ma tutto questo ha un costo. E oggi, denuncia l’avvocato, mancano i finanziamenti, le strutture, il personale. “Si continua a credere, o a far credere, che basti scrivere ‘ergastolo’ per dire ‘abbiamo fatto qualcosa’. E’ solo propaganda”, aggiunge.
Un’altra lacuna rilevata nella legge è la totale assenza di riferimenti alla protezione delle persone transgender, escluse da qualsiasi tutela “come se la violenza avesse un solo volto. Come se il genere assegnato alla nascita decidesse chi merita protezione”. Per Anselmo, la vera risposta alla violenza non è solo normativa, ma culturale: “I femminicidi non si fermano con le parole. Si fermano con la cultura, con l’educazione affettiva nelle scuole, con i servizi sul territorio, con i centri antiviolenza che funzionano davvero. Nessuna legge, da sola, riporterà indietro Giulia. Ma un centro antiviolenza, finanziato e ascoltato, forse avrebbe potuto salvarla”.
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