Il professor Diego Cavallina racconta la prima commemorazione dell’eccidio di Ponte Albersano subito dopo la liberazione dal nazifascismo il 27 giugno del 1945.
Era un mercoledì e il caldo afoso della pianura aggrediva i campi e la gente che si proteggeva con fazzoletti e cappelli, eppure nonostante fosse un giorno feriale nessuno aveva voluto mancare sul Ponte Albersano di Berra quel 27 giugno del 1945. Tutti volevano ricordare quello che era successo esattamente sul ponte 44 anni prima, quando i braccianti in sciopero furono presi a fucilate dai soldati del regio esercito mandati a proteggere i crumiri. Tra i presenti molti erano stati testimoni, a loro sembrava ancora di udire i colpi sparati a mitraglia e le urla dei caduti che stramazzavano in un mare di sangue. Alla fine della giornata si contarono due morti (un uomo e una donna) e svariati feriti, e non tutti riuscirono a sopravvivere.
Dopo quel giorno drammatico del 1901 la gente di Berra e di molti paesi vicini si radunò tutti gli anni per ricordare i loro compagni, anche se la stagione della mietitura tornava sempre puntuale a richiedere forza lavoro bracciantile, nessuno voleva dimenticare che col sangue di quei martiri si erano conquistate condizioni di lavoro leggermente migliori.
Ma all’inizio degli anni ’20 tutto si interrompe, in pochi anni i fascisti instaurano una feroce dittatura che disprezzava e combatteva tutto ciò che ricordava il movimento operaio, guai quindi a chi celebrava il primo maggio, guai ricordare i caduti di Ponte Albersano.
Ecco perché il 27 giugno del 1945, a due mesi dalla Liberazione e dalla caduta della dittatura tutta la gente ha bisogno di partecipare in massa alla manifestazione a lungo negata. C’è una marea di gente, vengono da Berra, da Serravalle, da Ariano, c’è una folta delegazione dei paesi di là dal Po
(uno dei caduti era di Villanova Marchesana) hanno “passato” il fiume ai Santi o a Papozze e a piedi o in bicicletta (le poche salvate dalla requisizione dei tedeschi) hanno disceso l’argine all’altezza dell’elegante chiesetta ottocentesca della Madonna della Galvana e si sono uniti ai vecchi compagni di lotta.
Non ha voluto mancare la vecchia Paola, avvolta nel fazzoletto nero che dal 1901 non ha mai abbandonato in segno di lutto, accompagnata dal figlio Socrate, e ad un certo punto intonerà il canto popolare “il povero Cardellino con le budella in mano” che era stato composto appositamente per i martiri di Ponte Albersano, non tutti lo ricordano, solo i più vecchi, ma subito tutti si uniscono in un grande coro liberatorio, c’è il vecchio Probo, dal glorioso passato di anarco-sindacalista, stimato e onorato da tutti perché non ha mai smesso di rivendicare il suo credo antifascista e ogni primo maggio si sedeva all’esterno della sua bottega di meccanico di biciclette vestito a festa con il cravattino nero dell’anarchia, ben consapevole che immancabilmente i “fascistoni” del paese sarebbero arrivati per picchiarlo e somministragli la sua razione di olio di ricino.
Ovviamente sotto le bandiere dei partiti antifascisti gelosamente conservate durante il ventennio della dittatura, c’è il Sindaco Labindo Bisi, indicato dal CLN, da due mesi regge il Comune, da quando l’ultimo Podestà e tutti i caporioni fascisti sono spariti, fuggiti lontano o chiusi in casa, e tiene un vibrante discorso in cui ricorda i caduti del 1901, ma non può non collegarli i partigiani che hanno combattuto nella resistenza berrese e trucidati nel dicembre del 1944. Nessuno può immaginare che questo sarà l’ultimo discorso del Sindaco della Liberazione. Poche sere dopo cadrà assassinato da mano rimasta per sempre ignota, mentre tornava dal suo ufficio nel Municipio di corso Piave.
Infatti partecipano alla manifestazione moltissimi giovani che hanno aderito alla Resistenza e tra essi quelli che hanno materialmente imbracciato le armi, compagni dei martiri della recente guerra civile, sul Ponte di Albersano idealmente si unisce la generazione delle lotte bracciantili di inizio secolo e i giovani che hanno voluto lottare contro la dittatura nazifascista.
Ecco che accanto ai vecchi sono presenti i famigliari dei caduti del 3 dicembre e quelli trucidati nelle carceri di Codigoro, c’è anche la piccola Loretta in braccio alla madre, che vorrebbe correre e saltare, e che non conoscerà mai il papà, uno dei martiri del cimitero di Berra, c’è Amedea, la vedova di Angelo Palmiro Previati, arrestato dopo la bomba alla caserma della guardia nazionale fascista e trucidato a Codigoro, accompagnata dal figlio Ovidio fortunosamente rientrato dalla prigionia in Germania.
Non può mancare il parroco Don Filippo Ricci, sacerdote ravennate rientrato dalla clandestinità alla quale era stato costretto dalla sua adesione alla lotta partigiana e il giovane sacerdote berrese don Iorio Bui che aveva portato i conforti religiosi ai giovani partigiani e unico testimone delle tragica notte del 3 dicembre sul cimitero.
Ci sono tutti insomma e soprattutto ci sono i giovani che si rendono conto che tocca a loro ricostruire l’Italia distrutta da vent’anni di dittatura, tocca a loro prendere in mano le redini dell’amministrazione cittadina e lavorare per il progresso ed il benessere della propria popolazione, non mancheranno di farlo e negli ottant’anni a venire, nel susseguirsi di tre generazioni di amministratori, nessuno ha dimenticato mai di celebrare il 27 giugno del 1901, quando i braccianti in sciopero furono trucidati dal regio esercito.
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