di Elena Coatti
Cosa significa essere italiano? Da questa domanda è partita una riflessione collettiva al secondo appuntamento degli Emergency Days, presso il centro sociale Il Parco. Una domanda all’apparenza semplice, ma che si complica nei meandri della burocrazia e delle identità negate. A rispondere, con estrema lucidità e un pizzico di ironia, Insaf Dimassi, dottoranda in Scienze Politiche e Sociali, e Nogaye Ndiaye, giurista e scrittrice.
Entrambe hanno offerto al pubblico non solo le loro biografie, ma un’analisi politica profonda del concetto di cittadinanza, appartenenza, rappresentazione e razzismo in un Paese che ancora fatica a guardarsi allo specchio. Per Insaf Dimassi, essere cittadina italiana non è solo una questione anagrafica: “Io mi sento italiana perché sono una donna repubblicana, democratica e antifascista. Questo è il fondamento della mia appartenenza all’Italia. Se non è l’amore per la nostra Costituzione la nostra base identitaria, allora cosa lo è?”.
Dimassi, cresciuta in Emilia dopo essere arrivata dalla Tunisia a nove mesi, non ha ancora la cittadinanza. Il motivo? Una combinazione kafkiana di tempistiche burocratiche, redditi insufficienti e leggi figlie di un’Italia che non esiste più. “A 18 anni ho dovuto scegliere: andare a lavorare per avere un reddito e quindi la cittadinanza, oppure studiare e inseguire i miei sogni rinunciando ai diritti“. Ha scelto di studiare, grazie a un permesso di soggiorno a tempo indeterminato col quale non rischia di essere rinchiusa in un centro per il rimpatrio. Oggi è dottoranda all’Università di Bologna, ma, per legge, ancora “straniera”.
Il dibattito si è soffermato a lungo attorno alla legge sulla cittadinanza attualmente in vigore, risalente al 1992. Una legge pensata per un’Italia ancora monoculturale, pre-digitale, pre-multietnica. “Una legge costruita per escludere – ha aggiunto Dimassi – nata in risposta all’aumento dei flussi migratori dell’Est Europa dopo la caduta del Muro di Berlino”.
Nogaye Ndiaye, autrice del libro “Fortunatamente nera”, ha aggiunto che questa legge “premia il sangue, non la vita. Una persona in Sud America può ottenere la cittadinanza perché ha un bisnonno italiano. Ma chi nasce e cresce in Italia, chi parla italiano come lingua madre, chi studia, lavora e contribuisce al Paese, no. Perché?”.
Anche Ndiaye ha raccontato la sua storia: nata e cresciuta in Italia da genitori senegalesi, ha ricevuto la cittadinanza a 18 anni. Un’attesa lunga una vita. “Quel giorno pensavo che sarebbe cambiato tutto, ma non è cambiato nulla: io ero italiana già prima”, ha detto. Il colore della pelle, ha aggiunto, continua ad essere una barriera più potente di un documento. “Per molti, un italiano nero non esiste. Non siamo visti. Siamo guardati, a volte anche troppo, ma mai visti“.
Durante la serata si è parlato molto di razzismo sistemico, quello che non si manifesta solo con parole d’odio, ma con meccanismi e leggi che escludono e gerarchizzano. “Non tutti possono manifestare per i propri diritti – ha spiegato Ndiaye -perché se non hai il permesso di soggiorno e vieni identificato, puoi essere rimpatriato. Anche scendere in piazza diventa un privilegio“.
Dimassi ha sottolineato poi un aspetto meno visibile, ma devastante: il razzismo interiorizzato. “Ho cambiato il mio nome sui social, ho cercato di cancellare la mia parte tunisina per essere accettata. Ma così ho solo perso una parte di me, della mia identità”. Da qui l’importanza della rappresentazione: “A scuola parlavamo dell’Africa solo in termini di schiavitù – ha osservato Ndiaye – o colonizzazione. Mai di dignità, mai di futuro”.
Si è infine tornati a parlare di cittadinanza citando Hannah Arendt, come “il diritto ad avere diritti”. Un’occasione mancata, poi, quella del referendum, naufragato per mancanza di quorum. “Ma anche un indicatore della distanza crescente tra politica e cittadini – ha osservato Ndiaye -. Il referendum non è fallito, ha semplicemente fotografato l’Italia di oggi“.
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