di Ilaria Baraldi*
Cosa può fare un lenzuolo bianco fuori dalla finestra? Un fazzoletto appeso allo zaino di una bambina? Un metro quadrato di tessuto candido fermato con le puntine nella bacheca di un circolo?
Più di 50.000 morti a Gaza, oltre 90.000 feriti e 2 milioni e 300.000 persone persone strette tra la fame e la sete, sotto le bombe, tra i cadaveri, obbligate a spostarsi continuamente nella speranza di sopravvivere in una striscia di terra martoriata, distrutta, invasa e occupata dalla ferocia del governo israeliano guidato da Netanyahu.
La gravità e la ferocia di ciò che sta accadendo è direttamente proporzionale all’incapacità dell’Europa, delle istituzioni internazionali, della diplomazia di fare alcunché di fronte al genocidio del popolo palestinese.
È impossibile sfuggire alle immagini della catastrofe: città rase al suolo, corpi e sangue, bambine e bambini dilaniati, i loro corpi coperti da lenzuoli, chi ancora è vivo lo è forse per poco e intanto è affamato e assetato, in coda per poco cibo, senza medicine e senza cure, con traumi e paure che non se ne andranno. Famiglie distrutte, una intera generazione che rischia di essere spazzata via. Chi sopravviverà odierà per sempre, riproducendo ancora e ancora le stesse dinamiche che da sempre attraversano quel pezzo di mondo, in modo non dissimile da ciò che accade in ogni luogo in cui la ferocia dell’uomo e la guerra vincono sulla speranza e la pace.
Nel tempo si sono moltiplicate anche in Italia e a Ferrara le iniziative e i momenti di confronto per rendere sempre più persone consapevoli e coscienti di quel che sta accadendo. Non sarà sufficiente, ma allargare e amplificare è ciò che può permettere a un numero sempre maggiore di uomini e donne di conoscere e solidarizzare e quindi scegliere oggi e domani se stare dalla parte di chi ammicca a Netanyahu, di chi si volta dall’altra parte, di chi commercia in armi, di chi si arricchisce scommettendo sulla povertà di milioni di persone o se invece stare dalla parte di chi chiede il cessate il fuoco senza condizioni, di chi rischia la vita per portare cure e aiuti umanitari, di chi ancora si indigna e parla di pace senza subordinate.
È pochissimo quel che facciamo, poco ancora quel che possiamo fare. Ma un pezzettino ciascuno di noi lo può mettere. Chi fa politica e ha voce pubblica, forse ha un poco di spazio in più per prendere posizione.
La guerra è espressione della volontà di sopraffazione, frutto del modello patriarcale di dominio e oppressione: le donne sono più volte e in modi molteplici vittime nelle guerre. Non so se siano più titolate a parlare di pace, ma senz’altro sono le prime a chiederla e a invocarne la necessità, a riconoscere nella guerra l’ovvio approdo di un mondo basato sullo scontro di civiltà, sulla sopraffazione, sull’uso della forza di chi ha di più contro chi ha di meno.
La Conferenza nazionale delle donne democratiche ha avviato un percorso che vogliamo porti ad una Conferenza Internazionale delle Donne per la Pace e contro la violenza. Ci impegniamo perché la voce delle donne sia sempre più forte in ogni spazio fisico e virtuale contro i conflitti nel mondo, perché cessino bombardamenti, sparatorie, evacuazioni, perché si affermino soluzioni diplomatiche e non si debba assistere alla crudeltà di uno stato che sceglie di annientare un intero popolo, perché l’Europa trovi la sua voce e si faccia casa di giustizia e solidarietà.
Un drappo e poco, non è abbastanza, ma partiamo da qui.