di Elena Coatti
Non servono aule di tribunale quando è la piazza a reclamare giustizia. Ai piedi della Cattedrale, due manifestanti indossano le maschere grottesche di Giorgia Meloni e Benjamin Netanyahu. Siedono a un tavolo, davanti a sacchi bianchi insanguinati, come quelli che avvolgono i corpi dei bambini palestinesi uccisi sotto le bombe. Poi il gesto: le manette.
La piazza si trasforma in un tribunale popolare. I due leader, accusati di complicità, collusione e genocidio, vengono simbolicamente messi “alla sbarra”. Nessuna toga, nessuna sentenza scritta: solo voci, rabbia, dolore. E una memoria che non vuole più tacere.
È così che ieri (giovedì 15 maggio), a 77 anni dalla Nakba, la catastrofe del popolo palestinese che dal 1948 non ha mai cessato di consumarsi, un centinaio di cittadini ferraresi si sono alzati e sono scesi in piazza per denunciare il genocidio in corso.
Il microfono passa di mano in mano, ma nessuno trattiene la voce. Interviene con forza anche la consigliera pentastellata Marzia Marchi, l’unica rappresentante istituzionale presente. Visibilmente emozionata, non esita a “metterci la faccia”. Ricorda le parole di Papa Francesco: “Disarmare, disarmare, disarmare”, scritte in una lettera del marzo scorso. E si chiede come sia possibile che, in questo Paese, solo i Papi sembrino riconoscere il dovere morale di fermare la guerra. “Una volta potevamo dire che non sapevamo dei campi di concentramento – prosegue -. Oggi, invece, abbiamo tutto sotto gli occhi. E non possiamo più voltare la testa dall’altra parte”.
“Quando a un collega palestinese viene recapitato il corpo di un bambino di otto anni con un proiettile solo in testa, non è incidentale – prende il microfono Francesco Ganzaroli, medico -. E non lo è soprattutto perché quel bambino è seguito da tanti, tanti altri. Sono più di 18mila e i numeri continuano a crescere. I medici sono costretti a scegliere chi deve morire, a chi amputare una gamba senza anestesia. E se non lo fanno, è perché sono già stati uccisi anche loro”.
La piazza ascolta, trattiene il fiato. Poi di nuovo, con tono accorato, Adam Sami – portavoce di Ferrara per la Palestina – ricorda come nonostante il dolore, la paura, la stanchezza e l’angoscia, ciò che arde di più nei cuori dei palestinesi sia la rabbia. Ripercorre le origini della Nakba, dal 1948, quando la proclamazione dello Stato di Israele segnò l’inizio della catastrofe: centinaia di villaggi cancellati, decine di quartieri svuotati, migliaia di palestinesi cacciati. Spiega il significato della chiave, oggetto simbolo della casa perduta e mai dimenticata, come promessa di ritorno. E punta il dito contro l’Europa: “Colonialismo, genocidio, segregazione razziale. Questo è ciò che il popolo palestinese subisce da 77 anni”.
“Tra le famiglie costrette alla fuga c’era anche la mia – racconta Sara -. Vogliamo far sentire la nostra voce, continueremo a sostenere il popolo palestinese. Il mio popolo, che sta soffrendo. Ma noi siamo più forti e non ci arrenderemo mai”.