Politica
14 Maggio 2025
Circa una ventina di persone a Ferrara per la protesta non violenta. All’incontro di Coalizione Civica si parla di repressione e resistenza civile

La sicurezza fa paura: i motivi del digiuno a staffetta

di Redazione | 3 min

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di Elena Coatti

In un’atmosfera raccolta ma intensa, martedì 13 maggio, presso l’Empatia Canapa Bar, si è tenuto l’incontro pubblico organizzato da Coalizione Civica per Ferrara, nell’ambito della staffetta nazionale di digiuno contro il Decreto Sicurezza.

Un momento di riflessione e denuncia che ha messo in luce la gravità del provvedimento voluto dal governo Meloni e che si inserisce nel percorso che porterà alla manifestazione nazionale del 31 maggio a Roma, promossa da numerose realtà della società civile.

La staffetta del digiuno, modalità di protesta non violenta, è qui non solo strumento simbolico, ma anche mezzo concreto per accendere i riflettori su un decreto che – come sottolineato in più interventi – rappresenta un passo pericoloso verso un modello repressivo, autoritario e fondato sulla paura. A Ferrara, la staffetta ha visto il passaggio tra circa una ventina di persone, tra cui Leonardo Fiorenti e Arianna Poli (Civica Anselmo), Adam Atik, Ilaria Baraldi (La società della ragione) e Andrea Firrincieli (La Comune di Ferrara).

A livello nazionale sono 360 le persone coinvolte che hanno messo in gioco il proprio corpo per manifestare dissenso. Proprio l’attacco al dissenso è un punto centrale del Decreto Sicurezza: “Dalle misure contro gli attivisti climatici, ora soggetti a sanzioni penali per blocchi stradali o ferroviari, all’infiltrazione autorizzata dei servizi segreti in gruppi anche non terroristici – spiega Fiorentini -, fino al tentativo di equiparare uno sciopero dei rider alla sospensione di un servizio pubblico essenziale. È questa la logica del panpenalismo populista, in cui tutto viene trattato come reato, con l’unico obiettivo di ottenere consenso attraverso l’autoritarismo”.

Baraldi ha poi sottolineato come il Decreto Sicurezza sia solo “l’ultima espressione di un progetto politico che punta a governare attraverso la paura, elevando il diritto penale a unico strumento di gestione sociale”. E precisa che questo decreto “non garantisce maggiore sicurezza, ma produce solo maggiore repressione”. Un esempio lampante portato durante l’incontro è quello dell’introduzione del reato di rivolta carceraria, contestabile anche in caso di semplice disobbedienza passiva, senza alcun atto violento, come il rifiuto di mangiare.

“Una norma che rischia di colpire in particolare le persone marginalizzate, detenute, trattenute dei Cpr o con permesso di soggiorno”, aggiunge Atik. Categorie di persone già ampiamente invisibilizzate che subiranno le peggiori conseguenze se questo decreto si trasforma in legge.

Attenzione particolare è stata rivolta alla strumentalizzazione del concetto di sicurezza, usato per giustificare ogni misura liberticida: dall’inasprimento delle pene per furti e scippi (che rischia di diventare più severo della pena minima per violenza sessuale, come ricorda Fiorentini) alla cancellazione del differimento pena per le madri detenute, con la concreta possibilità che i bambini nascano e crescano dietro le sbarre.

Le testimonianze si sono intrecciate con esperienze personali e professionali. Firrincieli, con alle spalle quarant’anni di servizio nel comparto sicurezza dell’Arma dei Carabinieri, ha denunciato l’inutilità delle misure repressive senza una reale politica di prevenzione, ricordando come fenomeni drammatici come i femminicidi o le morti sul lavoro non siano mai stati risolti “a colpi di decreto”. “Il problema è che si governa sull’onda dell’emergenza, senza affrontare le cause”, conclude.

Ma un filo rosso ha legato tutto l’incontro: la paura. Paura di manifestare, paura di essere schedati, paura di perdere il lavoro. Una paura che si traduce in un silenzio sociale, in un’apatia civile che “rischia di consegnare il paese a una gestione autoritaria, normalizzata un pezzetto alla volta”, riflette Poli. Eppure, ribadisce con forza la consigliera, “Ferrara non è troppo piccola per cambiare qualcosa a livello nazionale”.

Il senso di questa staffetta, dunque, non è solo quello di protesta, ma di un risveglio. Una chiamata alla responsabilità civile, alla partecipazione, alla difesa di quei diritti democratici che oggi vengono messi in discussione. “Perché un giorno, quando i nostri nipoti ci chiederanno ‘tu cosa hai fatto per impedirlo?’ – conclude Firrincieli – io voglio poter rispondere: ho fatto quello che potevo”.

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