di Ilaria Baraldi*
Tredici anni dopo i fatti, la sentenza 16136 della Cassazione conferma il reato di riduzione in schiavitù a carico degli intermediari, i cosiddetti caporali, per le condizioni di vita e di lavoro cui hanno costretto i migranti irregolari a Nardó: raccoglievano pomodori e angurie in una tale condizione di soggezione che non gli consentiva di «interloquire paritariamente con i committenti e di decidere in piena autonomia se rendere o meno la prestazione richiesta, in base all’entità del corrispettivo e alle condizioni di lavoro loro offerte».
La costrizione stava dunque «nella totale mancanza di risorse, l’assenza di alternative lavorative ed esistenziali, la scarsa conoscenza della lingua, l’ignoranza dei loro diritti». Il risultato fu l’accettazione di condizioni estremamente degradate, sistemazioni fatiscenti, paghe misere decurtate delle spese: anche un bicchiere d’acqua per sopravvivere veniva conteggiato.
I fatti risalgono al 2008/2011.
Oggi è il primo maggio e dobbiamo chiederci quanto le pratiche del caporalato che colpiscono, non solo al sud, uomini e donne, persone immigrate, regolari o irregolari, ma anche italiane e italiani che non trovano alternativa per la propria sussistenza, siano cambiate. La domanda è retorica, perché purtroppo non basta una sentenza a eliminare una pratica.
Così come non basta una patente a punti per eliminare le morti sul lavoro, dove le statistiche consegnano una media di 3 morti al giorno.
Nel 2024 sono state 1.090 le vittime di incidenti sul lavoro, con un aumento del 4,7% rispetto all’anno precedente. Nei primi due mesi del 2025, secondo i dati provvisori dell’Inail, i decessi sono già 138, segnando un aumento del 16% rispetto allo stesso periodo del 2024. Un numero che conferma la dimensione sistemica del dramma.
Uno dei temi centrali del referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025 riguarda proprio la sicurezza sul lavoro. Il quarto quesito propone l’abrogazione della norma contenuta nell’art. 26, comma 4, del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, che oggi esclude la responsabilità del committente per i danni subiti dai lavoratori in conseguenza di rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.
Il referendum punta a reintrodurre la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e subappaltatore anche in questi casi, affermando un principio chiaro: la sicurezza di lavoratori e lavoratrici non è una voce delegabile né un costo trasferibile lungo la catena degli appalti.
Dei 5 referendum, quattro riguardano il lavoro e uno riguarda la cittadinanza. Tutti e cinque coinvolgono un rafforzamento dei poteri, e con esso delle libertà, per chi oggi ne ha ingiustamente meno di altri.
Andare a votare e votare ‘si’ ai 5 referendum permetterà di ascoltare e fare ascoltare le voci di una parte importante di persone – tra cui tantissime donne e tantissimi giovani – in questi anni trascurate. Un primo indispensabile passo per costruire un modello di società più giusto e equo.
*Portavoce Conferenza Donne democratiche di Ferrara
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