Cronaca
12 Aprile 2025
La decisione del gup del tribunale di Ferrara nella mattinata di venerdì 11 aprile. Assoluzioni e non luogo a procedere per i restanti undici finiti alla sbarra

Rivolta all’Arginone. Processo per diciannove detenuti

di Davide Soattin | 4 min

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Alla fine saranno diciannove – sui trentuno totali – i detenuti che dovranno affrontare il processo per la rivolta nel carcere di via Arginone, avvenuta i primi giorni dell’emergenza Coronavirus, quando le misure sanitarie restrittive imposte dal governo Conte per contrastare il diffondersi della pandemia, tra cui il divieto di visite dei parenti, furono il pretesto per accendere gli animi dei ristretti nei penitenziari di tutta Italia.

È quanto ha disposto il gup Andrea Migliorelli del tribunale di Ferrara durante l’udienza preliminare di ieri mattina, venerdì 11 aprile.

Ai diciannove rinviati a giudizio vengono ora contestati – a vario titolo – il danneggiamento, la resistenza a pubblico ufficiale e le lesioni aggravate – queste solamente a uno degli imputati, ndr – mentre per tutti è caduta l’iniziale accusa di incendio.

Contestualmente, il gup ha pronunciato una sentenza di assoluzione per l’unico imputato che aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e undici sentenze di non luogo a procedere nei confronti di altrettanti detenuti che erano finiti nelle carte dell’inchiesta.

I fatti finiti al centro del processo risalgono all’8 e 9 marzo 2020. Fatti per cui erano finiti imputati personaggi già conosciuti alle cronache giudiziarie ferraresi. È il caso del 31enne nigeriano Egbogun Glory, soprannominato Omomo, già condannato a undici anni, quattro mesi e dieci giorni nel processo di secondo grado alla mafia nigeriana, oltre a essere tra gli autori del tentato omicidio col machete di via Olimpia Morata, per cui però ieri è stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere.

Insieme a lui anche il 41enne Afrim Bejzaku, che risultò essere tra gli ‘amici‘ di Igor il Russo.

Secondo il quadro accusatorio con cui erano stati portati davanti al gup, nella giornata dell’8 marzo, dalle 16.30 alle 21.15, all’interno della prima e della seconda sezione, usando violenza e minacce, e a volte ricorrendo a gesti autolesionistici, i detenuti avrebbero dato vita a una rivolta con disordini e ingenti danneggiamenti di vetri delle finestre, tavoli, biliardini, suppellettili di vario genere, procurandosi mazze in metallo e di legno divelte dai numerosi tavoli e stampelle, al punto tale da distruggere e rendere inutilizzabili, in tutto o in parte, i locali del penitenziario, finito sotto assedio.

In quella circostanza a farne le spese furono anche – e soprattutto – i poliziotti penitenziari. Alcuni vennero strattonati, bersagliati dal lancio di oggetti, insultati o minacciati. “Assassiniil virus ci sta uccidendo…i nostri familiari stanno morendo…non esiste niente…carcere di merda” avrebbero sbraitato due detenuti, altri invece, il giorno seguente, 9 marzo, prima di unirsi alla distruzione di telecamere, finestre, luci del corridoio, centraline elettriche, sistemi di telefonia e brande, incitando i compagni avrebbero iniziato ad urlare “Non mollate ora, spaccate tutto” e “Questa è Sparta, distruggiamo tutto”.

All’interno della sesta sezione, uno dei promotori della rivolta, indossando una maglietta con cui si era nascosto il viso, avrebbe appiccato un primo rogo,  seguito a ruota da altri detenuti. C’era chi si occupava di indicare il luogo in cui accendere il fuoco, chi aveva il compito di reperire lenzuola, tavoli, sgabelli e coperte da bruciare con olio da cucina, chi bloccava gli ingressi con una branda e chi invece percorreva il corridoio della sezione svariate volte motivando i rivoltosi a non mollare e a continuare con forza la loro protesta, comunicando ai poliziotti penitenziari che non sarebbe finita lì e che sarebbe arrivata la fine per l’istituto.

La rivolta – secondo quanto riportato nel capo di imputazione iniziale – proseguì fino allo scoppio di un incendio, accusa che però durante l’udienza preliminare è caduta. Sempre nella sesta sezione, il 9 marzo, un detenuto di nazionalità tunisina di 34 anni avrebbe colpito al torace, gettandogli contro una mazza di legno, un agente scelto della polizia penitenziaria che stava spegnendo uno dei roghi accesi nel corso della rivolta. Il colpo provocò al secondino lesioni personali che i sanitari giudicarono guaribili in dieci giorni.

Dopo due giorni, la situazione rientrò grazie a una lunga opera di mediazione svolta dagli uomini della polizia di Stato e dei carabinieri, intervenuti con quindici pattuglie per un totale di circa quaranta uomini antisommossa, che riuscirono a convincere i detenuti detenuti a rientrare nelle rispettive celle pacificamente evitando così di dover procedere forzatamente, con possibili conseguenze per gli uni e per gli altri. La trattativa fu complessa, non priva di difficoltà, ma alla fine prevalse la ragione e il buon senso e tutto si risolse per il meglio.

Per i diciannove mandati a processo, l’inizio dell’istruttoria dibattimentale è fissata per il 3 giugno davanti al giudice Marco Peraro.

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