di Elena Coatti
Cosa significa fare femminismo? Lo abbiamo chiesto a Giulia Siviero, giornalista de Il Post che si occupa di questioni di genere e politica delle donne, nonché autrice di un testo fondamentale, pubblicato un anno fa. Il libro “Fare femminismo” (Nottetempo), una vera e propria genealogia femminista radicale, sarà protagonista del Festival delle Parole, organizzato dal Consorzio Factory Grisù, nella serata di sabato 12 aprile dedicata a ‘femminismi e letteratura’. Con Siviero discuteranno anche le autrici Beatrice Salvioni e Antonella Lattanzi.
La copertina del tuo libro è un’immagine molto evocativa: una donna con il passamontagna che allatta un bambino. Perché ha scelto questa foto?
È una fotografia del 2009 di Argelia Bravo, la “Virgen de la leche”. La tengo appesa alla parete di casa mia. Quando mi hanno chiesto quale immagine usare come copertina del libro, ho pensato subito a lei. Quella foto rappresenta bene il tipo di femminismo di cui parlo nel libro: radicale, non pacificato e non istituzionale. Il passamontagna richiama l’anonimato, un aspetto che negli anni Settanta era centrale nelle lotte femministe: i documenti venivano firmati collettivamente per sottolineare che il femminismo non era fatto da singole figure di spicco, ma da una moltitudine di donne.
Ad oggi sembra che le piazze continuino a svuotarsi, mentre le piattaforme social si riempiono di influencer divulgatrici dei temi più cari al femminismo. Come si spiega questa tendenza? È possibile invertirla?
Il cosiddetto femminismo mainstream è pieno di slogan e prese di posizione che spesso sono una rimasticazione delle idee più radicali. Le piazze che si riempiono solo durante alcune giornate mi sembra che siano un po’ lo specchio dei social. Il punto è che il femminismo non è solo pensiero, ma un movimento fatto di pratiche e relazioni tra donne. Se questo si riduce a contenuti da postare e personal branding, senza costruire spazi di incontro e azione, si perde la sua forza trasformativa. Per invertire la rotta è necessario recuperare quella creatività militante che le attiviste hanno sempre avuto, ma questa va coltivata negli spazi fisici, luoghi dove immaginare concretamente il mondo che vorremmo.
Nel suo libro parla della rabbia come motore politico. Alcuni temono che possa trasformarsi in una deriva punitiva o, addirittura, misandrica. Cosa ne pensa?
Questa è una visione distorta, e maschilista, della rabbia femminista. Per secoli la rabbia delle donne è stata vista come una patologia, qualcosa da reprimere. Invece è un sentimento politico potente, che aiuta a riconoscere le ingiustizie e a reagire. Il movimento femminista ha sempre detto ‘con amore e rabbia’: la rabbia non è cieca vendetta, ma consapevolezza. Un modo per liberarci dai ruoli imposti, come l’idea che le donne debbano essere sempre mansuete e concilianti. Smettere di reprimere la rabbia è un atto di autodeterminazione.
Quale ruolo dovrebbero avere gli uomini nel femminismo? Possono essere parte del movimento?
Gli uomini possono essere sostenitori e alleati, ma il femminismo è un movimento storico delle donne per le donne. Non significa escluderli, ma riconoscere che il cambiamento parte da chi è oppresso. Gli uomini dovrebbero interrogarsi su cosa significa appartenere al genere maschile oggi, su come il patriarcato danneggi anche loro. Troppo spesso il dibattito si sposta sul ‘non tutti gli uomini’, come se il femminismo fosse un’accusa collettiva. In realtà è una richiesta di responsabilità: il patriarcato esiste e gli uomini devono riconoscerlo e lavorare per cambiarlo.
Le istituzioni cosa possono fare per arginare la violenza di genere?
Le istituzioni continuano a fallire su questo tema. Lo dimostrano anche le recenti dichiarazioni di Carlo Nordio (il ministro della Giustizia ha affermato che “alcune etnie hanno sensibilità diverse sulle donne”, ndr). Sono una prova di quanto il governo sia distante dalla realtà della violenza di genere. Per questo credo che l’autogestione sia fondamentale: creare spazi indipendenti per l’educazione sessuale e affettiva, senza delegare allo Stato nelle scuole, che rischia di proporre modelli distorti. Un esempio positivo è l’associazione D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) di Firenze, che ha aperto una linea diretta in chat per supportare le donne, senza l’intermediazione delle istituzioni.
Anche i media hanno una grande responsabilità nel modo in cui raccontano la violenza di genere. Come possiamo migliorare?
Il problema è che i giornali spesso riproducono la stessa violenza che dovrebbero denunciare, con narrazioni che giustificano o minimizzano. Non è un caso: il giornalismo, come lo conosciamo, è stato costruito da uomini bianchi per uomini bianchi. Bisogna cambiare prospettiva. Raccontare la violenza maschile per quello che è, senza ambiguità, è un primo passo. Il giornalismo non è neutrale, e proprio per questo deve scegliere da che parte stare.
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