Erano entrambe accusate di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione aggravato per aver indotto con l’inganno e dietro minaccia una donna, loro connazionale, a vendere il proprio corpo per poter guadagnare e poi pagare i 40mila euro che sarebbero stati necessari a ottenere nuovamente la libertà che le era stata strappata qualche anno prima. Ma ieri (2 aprile) quell’aggravante è stata esclusa dal tribunale di Ferrara e così, essendo i fatti contestati risalenti a dieci anni fa, il collegio giudicante ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere nei loro confronti perché – nel frattempo, data la minor gravità del fatto – è subentrata la prescrizione del reato che inizialmente era contestato a entrambe.
Si è chiuso così, con un nulla di fatto, il processo a carico di due donne di nazionalità uruguaiana di 50 e 47 anni, finite alla sbarra per fatti risalenti all’ottobre 2015 tra le province di Ferrara e Bologna ma che la vittima aveva rivelato solamente nel 2020 quando era andata dai carabinieri di Loiano, in provincia di Bologna, al fine di denunciare l’ex marito per maltrattamenti che – in primo grado – è stato assolto dall’accusa. I militari del 112 avvisarono così gli uffici di corso Ercole I d’Este che, a seguito della segnalazione ricevuta, affidarono le indagini agli uomini della Squadra Mobile che, tra analisi della banca dati e ascolto della donna, riuscirono a individuare i presunti burattinai di quel giro losco.
La presunta vittima della vicenda – stando al racconto che lei stessa aveva fatto in aula – era arrivata in Italia, dove le avevano promesso un impiego come cameriera, grazie all’aiuto di un’amica che le aveva fatto da tramite. Ad attenderla, all’aeroporto milanese di Malpensa, c’erano tre persone. Due donne, le odierne imputate, e un uomo, che da Milano l’avevano portata a Ferrara, dove le avevano dato vitto e alloggio in una casa. Ben presto, però, le speranze di poter iniziare una nuova vita finirono e la donna – sempre secondo quello che fu la sua testimonianza – venne catapultata improvvisamente in un incubo: le fu preso il passaporto e le fu imposto di prostituirsi lungo le strade della città, lungo via Bologna.
L’obiettivo – come lei stessa aveva raccontato nell’udienza dello scorso 2 ottobre – era quello di guadagnare 40mila euro, somma decisa dalle due presunte aguzzine per poter uscire da quella situazione, senza che nessuno si fosse fatto male. “Mi sono sentita impaurita e minacciata” aveva riferito, davanti al collegio del tribunale, soprattutto “per il tono con cui mi parlavano che non era proprio amichevole” aveva aggiunto. “Fai la brava che là (in Uruguay, ndr) hai la famiglia e anche io ce l’ho” le avrebbe detto una delle imputate che – secondo la presunta vittima – apparteneva a una famiglia nota in Sud America per essere vicina agli ambienti della malavita.
A Ferrara ci restò venti giorni, poi fu trasferita a Bologna, dove continuò a prostituirsi per un anno, consegnando alle ‘madame’ circa 250 euro ogni sera. Lì, grazie alla solidarietà di alcuni clienti, riuscì a recuperare i soldi che le servivano e finalmente fu liberata.
A distanza di quattro anni però, nel 2019, alle prese con una situazione familiare di gravissimo disagio economico, decise di contattare nuovamente le due donne, a cui chiese di poter tornare nuovamente sulla strada. Lo fece per una settimana, lungo la via Emilia, poi non le vide più. La vicenda in sé sarebbe finita qui. Nessuna denuncia, nessuna richiesta di aiuto, nemmeno quando, arrivata a Bologna, venne accompagnata in Questura per i passaggi necessari a formalizzare la richiesta di asilo.
Se fu aperto un fascicolo di inchiesta sulla vicenda, infatti, lo si dovette solamente a quella vicenda per maltrattamenti che lei denunciò, accusando l’ex marito. Sia lei che lui, sentiti dai carabinieri, rivelarono questo aspetto appartenente al passato della donna. Fu il là alle indagini degli uomini della Squadra Mobile della Polizia di Stato di Ferrara che portarono a individuare le presunte responsabili dei fatti nelle due donne, finite alla sbarra e per cui ieri – nonostante la richiesta di assoluzione della Procura – il tribunale ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere dopo aver riconosciuto l’inesistenza dell’aggravante, come aveva chiesto uno dei loro avvocati difensori durante l’arringa difensiva.
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