L'inverno del nostro scontento
22 Marzo 2025

Se sono nostri amici non è genocidio: il doppio standard sul genocidio a Gaza

di Girolamo De Michele | 8 min

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Traduco un’intervista a William Schabas sul genocidio in corso a Gaza, pubblicata sul giornale The New Arab lo scorso 11 marzo [qui].
Chi si occupa di genocidio dal punto di vista giuridico sa che William Schabas è uno dei più autorevoli, se non il più autorevole, esperto mondiale di diritto internazionale umanitario, e in particolare del genocidio; il suo Genocide in International Law. The Crime of Crimes è considerato un commento imprescindibile alla legislazione mondiale sul genocidio: basta vedere la quantità, e la qualità, delle sue citazioni in giuristi esperti quali Cassese (Antonio), Leotta, Zappalà, Greppi, Portinaro – per non parlare della letteratura internazionale (mi limito a The UN Genocide Convention – A Commentary, curato da Paola Gaeta per la prestigiosa collana Commentaries on International Law di Oxford).
Si dirà: se critica la politica israeliana è *antisemita*. William Schabas viene da una famiglia ebraica (lo dice il suo stesso cognome) che ha lasciato morti nei campi di sterminio, ed è stato per anni una firma della più antica e prestigiosa rivista giuridica israeliana, la Israel Law Review.
Si dirà: ma è intervistato da un *giornale arabo*. È vero – ma la domanda è: perché a un giornale italiano non è venuto in mente di intervistarlo?

The New Arab: Qual è l’opinione comune fra gli studiosi del genocidio per quanto riguarda Gaza?

Con molti studi sul genocidio a disposizione, le persone sono (ora) piuttosto favorevoli al descrivere ciò che sta accadendo in Palestina come genocidio. Probabilmente fra loro c’è un ampio numero di giuristi internazionali, anche se in misura minore, poiché i giuristi internazionali di solito hanno una mentalità del tipo “aspettiamo di vedere cosa dice la Corte [Internazionale di Giustizia]”. Ma è difficile per gli accademici, certamente nei paesi occidentali, prendere questa decisione senza pagare un prezzo potenziale per aver condannato il genocidio di Israele. Un prezzo in termini di promozioni di carriera, nomine o persino la minaccia di licenziamento in alcuni casi. Quindi, per i giovani nel mondo accademico c’è una forte tendenza a tenere la testa bassa. Parte del problema specifico è il fatto che gli studi sul genocidio sono spesso collegati al dipartimento di studi sull’Olocausto delle università. Penso che questo abbia contribuito ad alimentare la riluttanza fra gli accademici a definire Gaza un genocidio, poiché l’attenzione di molti di loro è rivolta alla sofferenza del popolo ebraico, e ciò li rende potenzialmente meno inclini a essere critici nei confronti di Israele, come dovrebbero essere.

Come mai Lei non ha paura di perdere il lavoro per aver denunciato il genocidio di Israele?

Vorrei dire che è perché sono una persona di principi. O forse ho 74 anni e non ho nulla da perdere.

Come analizza l’incapacità dell’Occidente di usare la parola genocidio a Gaza?

Siamo in un mondo in cui genocidio è un termine che viene utilizzato in senso creativo e ampio per scopi politici, e viene rifiutato e negato per lo stesso tipo di ragioni. Ad esempio, il governo degli Stati Uniti ha rilasciato quattro anni fa dichiarazioni di condanna della Cina per un genocidio contro gli uiguri. Gli Stati Uniti non hanno avuto remore a denunciarlo come genocidio, e nemmeno il Regno Unito, nonostante la Cina non abbia ucciso decine di migliaia di civili, come Israele ha fatto a Gaza. Lo chiameranno genocidio quando sarà politicamente conveniente per loro, perché la Cina è vista come una minaccia e un paese da attaccare. Ma non lo applicheranno a una nazione amica, come Israele. Biden ha parlato di genocidio commesso in Ucraina dai russi: è un’affermazione assurda. Ma quando il Sudafrica ha formulato l’accusa di genocidio contro Israele, l’hanno liquidata come infondata e superficiale; Starmer e Lammy si contraddicono dicendo che “tali affermazioni dovrebbero essere lasciate alla decisione dei tribunali”. Questi politici riconoscono prontamente i genocidi contro gli ebrei, gli armeni, i rwandesi e i musulmani bosniaci, ma ora hanno difficoltà nel denunciare ciò che sta facendo Israele. Se possono chiamare gli altri casi genocidio, allora con la stessa logica dovrebbero mettere in discussione ciò che Israele sta facendo ai palestinesi. Questi doppi standard sono chiari.

Un giorno tutti i paesi occidentali riconosceranno ciò che è accaduto a Gaza come un genocidio. Sarà come l’apartheid in Sudafrica, quando l’Occidente è rimasto in silenzio per decenni, e poi improvvisamente è diventato consapevole, quando ha pensato che fosse sicuro farlo.

Quali sono alcuni dei fattori che Le fanno vedere un genocidio a Gaza?

Quando ho visitato il Rwanda all’inizio del 1993, circa 15 mesi prima del genocidio vero e proprio, come parte di una missione di accertamento dei fatti abbiamo avvertito l’ONU del genocidio perché c’erano dichiarazioni molto evidenti che chiedevano la distruzione di un gruppo, unite a veri e propri massacri commessi con la benedizione delle massime autorità del paese. È stata una combinazione di quei fattori, e vedo la stessa cosa all’opera a Gaza. Basta prendere la famigerata dichiarazione di Yoav Gallant su Israele che nega acqua, cibo, elettricità e carburante a Gaza: questo è solo un esempio.

Ma invocare il genocidio non è come mandare un messaggino sul tuo telefonino: stiamo interpretando la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio alla luce del modo in cui è stata interpretata in passato. L’intento dei leader di Israele sembra essere quello di distruggere il popolo palestinese, certamente la popolazione di Gaza.

Quale strategia avrà più successo per coloro che portano Israele in tribunale?

Sarà utile se la Corte adotterà una interpretazione più ampia della definizione di genocidio rispetto a quella adottata nei casi precedenti. Ci sono casi di genocidio nei Balcani in cui la Corte Internazionale di Giustizia ha adottato una definizione piuttosto rigida. Ma ci sono molte cose che suggeriscono che ciò non accadrà di nuovo, dato il numero di paesi che stanno intervenendo nei procedimenti e chiedendo un’interpretazione più ampia. Alla fine del 2023, c’è stato un intervento da parte di Regno Unito, Canada, Francia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca che hanno chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di adottare un approccio più flessibile alla Convenzione sul genocidio, per rendere più facile provare l’intento genocida. Lo stavano sostenendo nel caso che coinvolgeva il Myanmar, dove volevano sostenere l’argomento che il Myanmar stesse commettendo un genocidio. Non potevano sapere e non potevano prevedere che mesi dopo il Sudafrica avrebbe presentato la sua accusa contro Israele e che tutti i loro argomenti sarebbero stati favorevoli al Sudafrica e avversi a Israele. È qualcosa che stiamo vedendo accadere alla Corte Internazionale di Giustizia, e che rafforza la tendenza della Corte ad assumere una più ampia visione del concetto di genocidio.

Cosa risponde all’argomentazione israeliana secondo cui: “Non stiamo commettendo un genocidio, siamo in guerra”?

Se pensiamo al genocidio ottomano degli armeni nella prima guerra mondiale o al genocidio nazista degli ebrei nella seconda guerra mondiale, entrambi questi, e altri, sono stati perpetrati nel contesto di una guerra, quindi quell’argomentazione non ha possibilità di successo presso la Corte Internazionale di Giustizia. Israele potrebbe anche sostenere che coloro che nel loro governo hanno fatto dichiarazioni genocide sono persone marginali. Ma in tutti i genocidi riconosciuti c’erano alcune persone ideologicamente fanatiche, e poi c’erano coloro che stavano solo facendo il loro lavoro. Anche il mantra di Israele dell’autodifesa non farà molta strada in Tribunale. Questo è un argomento ben noto: ancora una volta, quasi ogni caso riconosciuto di genocidio ha coinvolto autori che hanno affermato di combattere per autodifesa.

Cosa risponde all’argomentazione israeliana secondo cui: “Il nostro rapporto tra combattenti e civili uccisi non è grave come nelle guerre degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq”?

Stanno dicendo “non siamo così malvagi come voi”: un argomento che non andrà lontano in Tribunale. La regola della proporzionalità – come è nota nel diritto internazionale – si applica quando si attaccano effettivamente obiettivi militari.

Ma gli israeliani non stanno attaccando obiettivi militari a Gaza. Stanno attaccando ospedali, stanno attaccando scuole, stanno attaccando residenze e comunità civili.

Lì, la questione della proporzionalità non è rilevante. Non dovrebbero attaccare quei siti e poi inventarsi la patetica scusa che i combattenti di Hamas si nascondono sotto ogni edificio, cosa di cui semplicemente non vediamo le prove.

In che misura Lei dà la colpa agli Stati Uniti per le azioni di Israele?

Non dobbiamo sottovalutare la partecipazione diretta degli Stati Uniti a ciò che sta accadendo. A loro piace descrivere la situazione come se stessero cercando di tenere al guinzaglio questo cane rabbioso di cui sono amici: ma in realtà, stanno dando carne rossa al cane rabbioso. È il loro cane e niente di tutto questo sarebbe successo se non glielo avessero permesso. Questa è la politica in atto degli Stati Uniti: vogliono controllare una parte del mondo, hanno vari interessi finanziari, politici e militari in Medio Oriente e, dagli anni ’40, il fondamento della loro politica è stato quello di mantenere un potente alleato militare nella regione tramite Israele, uno “Stato occidentale” di cui si fidano in un modo che non hanno con uno Stato arabo. Uno dei modi in cui i media occidentali e la classe politica hanno giustificato le azioni di Israele è descrivendo ciò che è accaduto il 7 ottobre con parole come “barbaro”. È stato un classico esempio di forze europeizzate che cercano di demonizzare le persone di altre parti del mondo suggerendo che sono incivili, che non combattono secondo le stesse regole e che si impegnano in qualcosa di selvaggio e primitivo. È una visione profondamente razzista. È stata caratteristica della propaganda americana e britannica per molto, molto tempo. E penso che sia una caratteristica del modo in cui hanno parlato dei palestinesi in generale, non solo di coloro che sono stati coinvolti nell’attacco del 7 ottobre 2023.

Qual è secondo Lei la strategia di Israele per il futuro?

Hanno trasformato Gaza in un posto che va al di là di ogni immaginazione, e temo che peggiorerà sempre di più. E in Cisgiordania accadrà la stessa cosa col continuo movimento dei coloni. Israele è un paese che è stato costruito in larga misura sull’uso della forza contro le persone a cui hanno rubato la terra. La tonalità di tutto ciò che è accaduto fino a oggi è stata data da quelle azioni. Hanno avuto l’opportunità di provare a raggiungere accordi e tornare al processo di Oslo: c’erano elementi in Israele, a quel tempo, che erano pronti a cercare di trovare una via pacifica. Non c’è una ragione intrinseca per cui entrambe le persone non dovrebbero essere in grado di coesistere. Ma Israele è stato assolutamente incapace di fare i radicali compromessi necessari per vivere in pace con i palestinesi.

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