“Per un operaio che come me ha sempre vissuto di lavoro, non è stato facile finire nel tritacarne dei social network e nel mirino dell’ex vicesindaco, venire insultato e poi essere chiamato a colloquio dal presidente della cooperativa per cui lavoravo: non l’ho vissuta bene“.
A parlare è Daniel Servelli, dipendente di Cidas, sentito ieri mattina (mercoledì 5 marzo) in tribunale a Ferrara come parte civile nel processo a carico di Daniele Bertarelli, presidente della cooperativa stessa, accusato di induzione indebita a dare o promettere utilità. Si tratta del procedimento nato dalla stessa inchiesta che – lo scorso dicembre – aveva portato alla condanna dell’ex vicesindaco Nicola Lodi, a cui il gup Andrea Migliorelli del tribunale di Ferrara ha inflitto in primo grado (con rito abbreviato) due anni e dieci mesi di pena.
I fatti sono noti. Lodi – nella famosa lettera choc del 3 maggio 2020 resa pubblica da Estense.com – aveva chiesto a Bertarelli di rimuovere il dipendente dall’incarico che stava svolgendo preso l’ospedale di Cona. Fatto “necessario per mantenere sereni rapporti collaborativi con la vostra cooperativa e che vogliamo non vengano meno per colpa di una persona di questo genere”. Bertarelli non eseguì quanto richiesto da Lodi, ma procedette alla sanzione disciplinare del richiamo verbale (avvenuto il 27 maggio 2020) e successivamente in un ulteriore avvertimento orale, nel corso di una discussione (registrata da Servelli) il 18 agosto successivo.
Su quest’ultimo confronto, Servelli ha raccontato: “Decisi di registrare perché sentivo odore di Nicola Lodi nell’aria. Sentivo che c’era il suo zampino e volevo vedere quanto fosse grande. In quei trenta minuti di colloquio, il mio stato d’animo fu prevalentemente caratterizzato da rabbia. Il presidente mi chiese, come se fosse mio papà, di non commentare col telefono. Se lo avessi fatto in orario di lavoro, avrei anche potuto capire, ma fuori orario di lavoro sarò libero di fare ciò che voglio? E invece no, mi sono sentito privato della mia libertà“.
“All’inizio della conversazione, Bertarelli mi disse «lei non è in cooperativa per lo spirito santo». Quella frase – ha proseguito – la vissi come una frecciatina. Il presidente mi consigliò di lasciar perdere, di far finta che Lodi non esistesse oppure di limitarmi a fare commenti tecnici. Così, dopo quell’invito, non sapendo più cosa fare, decisi di fregarmene di tutto, smettendo di commentare con la stessa frequenza con cui avevo fatto in precedenza. Mi sembrava che tutta la Cidas dipendesse dal mio comportamento“.
Nel corso della conversazione Bertarelli – come si sente nell’audio registrato di nascosto – aveva anche precisato a Servelli che “io sono una persona estremamente democratica, come democratica è la cooperativa. Se tu mi dici che come cittadino vuoi portare avanti questa tua voce democratica, ovviamente fuori dall’orario di lavoro, per me la questione finisce qua“.
Servelli, davanti al collegio del tribunale, ha detto di “non aver mai temuto più di tanto” per il proprio posto di lavoro. “Facevo fatica a capire come avrebbero potuto licenziarmi per un commento pubblicato su Facebook” ha spiegato il dipendente, che in Cidas – in quel periodo – lavorava insieme al fratello e alla mamma: “Io e mio fratello avevamo un contratto indeterminato da soci, mentre mia mamma aveva un determinato e non volevo che andassero a colpire lei invece che me”. Per la cronaca, nessuno dei familiari ha subito ripercussioni a seguito dello scoppio della vicenda.
Durante la propria deposizione, rispondendo alle domande di pm e degli avvocati di difesa (avvocato Simone Trombetti) e parte civile (avvocato Gaia Fabrizia Righi), il dipendente Cidas ha definito “molto più martellante” il colloquio avuto con Bertarelli se paragonato a quello tenuto precedentemente con l’ufficio risorse umane della cooperativa, con cui invece ha detto di essersi confrontato con un “dialogo sereno, gentile e molto cortese” in cui comunque gli fu ricordato che “come socio avevo anche dei doveri“.
Socio della cooperativa, Servelli, c’era diventato nell’aprile 2014, quasi un anno dopo la sue entrata in Cidas avvenuta ad agosto 2013. Prima aveva lavorato in fabbrica: “In vent’anni di lavoro non mi era mai capitato di andare a colloquio col direttore, non ho mai avuto grane e non ho nemmeno mai affrontato discussioni del genere. Non ho mai fatto attività politica, non ho mai avuto tessere di partito e non ho mai ricoperto incarichi pubblici. E non ci penso nemmeno. Non ho mai avuto sanzioni o richiami prima di quella volta. Ho un solo difetto, mi piace la politica, ma non ho mai creato problemi alla cooperativa“.
Il ‘grande accusatore’ ha chiuso la propria testimonianza raccontando lo stato d’animo vissuto in quei mesi, quando scoppiò il caso: “Avevo l’impressione di essere controllato. In quel periodo mi sono sentito bersagliato dall’ex vicesindaco Lodi e non riuscivo a capire se all’ospedale di Cona ci fosse qualcuno che mi controllava o mi seguiva. Pensavo veramente di essere perseguitato al lavoro o a casa e avevo quotidianamente il timore di essere richiamato a prescindere per qualsiasi cosa facessi. Insomma, in quei primi momenti, quando scoppiò il caso, non ero affatto tranquillo“.
A testimoniare in aula anche Cristiano Capisani, vicepresidente Cidas, sentito sulla collaborazione tra la cooperativa e il Comune che al tempo prevedeva diversi contratti e appalti per oltre 1 milione e 600mila euro. A proposito, il numero due di Cidas ha riferito che quegli emolumenti derivavano da vecchi contratti Sprar e Sai, di cui era inizialmente destinataria l’ex cooperativa Camelot, prima della fusione con Cidas, che formalmente erano gestiti dagli uffici di piazza Municipale ma che in realtà provenivano da fondi ministeriali. Quindi – ha evidenziato Capisani – i rapporti non erano tanto tra Comune e Cidas, quanto tra Cidas e il Ministero dell’Interno.
Il processo tornerà in aula il 2 luglio.
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