di Federica Pezzoli
Un classico della tradizione teatrale rivisitato in chiave contemporanea nel tentativo di porre l’accento sulla straordinaria attualità del primo testo italiano in cui è protagonista una donna. È “La locandiera” di Carlo Goldoni nella visione di Antonio Latella e con Sonia Bergamasco nel ruolo di Mirandolina, che ha aperto la stagione di prosa del Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara (in scena fino a domenica 27 ottobre).
“Per essere Mirandolina bisogna essere capaci di mettersi al servizio dell’opera, ma anche non fare del proprio essere femminile una figura scontata e terribilmente civettuola, cosa che spesso abbiamo visto sui nostri palcoscenici”. Questa è la chiave interpretativa di Latella, che punta tutto sull’aspetto rivoluzionario e contemporaneo di una figura tutt’altro che frivola e scontata, aiutato dalle scene essenziali di Annelisa Zaccheria e dai costumi e dalle luci – rispettivamente di Graziella Pepe e Franco Visioli – che creano atmosfere a tratti blues e underground.
La protagonista cui tentano di dar vita Latella e Bergamasco sa districarsi perfettamente in un mondo dominato dai maschi, genere che lei manovra a suo piacimento ricavandone anche benessere economico, ma – come ha affermato Sonia Bergamasco nell’incontro con la compagnia di sabato pomeriggio – rimane “lontana dai cliché della donna manipolatrice e maliziosa”, espressi invece dalle due commedianti Ortensia (Marta Cortellazzo Wiel) e Dejanira (Marta Pizzigallo), che si fingono dame per gabbare qualche povero malcapitato. Un personaggio capace di dominare l’universo maschile – e aristocratico – utilizzando le arti della seduzione, ma soprattutto l’ironia, l’intelligenza, la concretezza e la saggezza. Doti che contrastano con la vacuità e la leggerezza dell’aristocratico, un tempo ricco e potente, Marchese di Forlipopoli (Giovanni Franzoni), e del Conte di Albafiorita (Francesco Manetti), nato semplice mercante, ma talmente arricchito da poter comprare il diritto di far parte della nobiltà fiorentina: personaggi rappresentanti di un ceto e di un’era “fuori tempo massimo” e “non hanno più niente da offrire”, come ha detto Manetti sabato pomeriggio. Nel Cavaliere di Ripafratta di Ludovico Fededegni, l’unico che riesce a far vacillare Mirandolina, si ritrovano invece i tratti ambivalenti, ambigui e inquietanti, tra eccessi di passione e d’ira, dei casi di violenza di genere purtroppo sempre più all’ordine del giorno. Un rimando più che leggibile anche nel protagonismo di quella pentola rossa illuminata, mentre dall’altro lato del palcoscenico il Cavaliere suona con l’armonica il suo blues malinconico accanto a una Mirandolina esanime distesa sul tavolo.
Il sottofondo dolceamaro di questa Locandiera di Latella emerge nel secondo atto, quando Mirandolina deve decidere fra la passione e la pragmaticità, il tormento e la serenità. Quale è la strada per una reale emancipazione? Come può ciascuna donna riconoscerla per sé stessa? Latella non sembra voler dare una risposta, ecco forse il tratto nello stesso tempo più interessante e più rischioso di tutta l’operazione: il tentativo, pur ricco di rimandi, citazioni ed allusioni, non sembra andare fino in fondo anche se certamente ha l’indubbio pregio di voler innescare un’analisi che vada più nel profondo per frequentare strade e interpretazioni meno scontate e far emergere i temi più attuali di questo grande classico del teatro italiano.
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