di Cecilia Gallotta
“In Egitto, quando ti arrestano, se arrivi in prigione significa paradossalmente che la tua vita è più al sicuro”. Le parole di Patrick Zaki hanno la capacità di catapultare immediatamente in scenari atroci il pubblico che sabato sera ha riempito la sala del Centro Sociale Il Parco per l’ultimo evento in programma agli Emergency Days.
L’attivista e ricercatore egiziano – ex prigioniero di coscienza rilasciato lo scorso luglio – racconta infatti che gli istanti di maggior terrore sono stati quelli precedenti all’arrivo in cella, dal momento dell’arresto (avvenuto il 7 febbraio 2020) lungo tutto il tragitto. “Trentasei ore di panico – descrive – perché sappiamo tutti quello che è successo a Giulio Regeni”.
Sulle condizioni delle carceri egiziane, Zaki dedica molto spazio nel suo libro “Sogni e illusioni di libertà”, in cui ripercorre la sua storia senza risparmiare dettagli agli stomaci più sensibili. “Vi basti pensare – accenna al pubblico – che in una cella da dieci persone ce n’erano sessanta, e dovevamo turnarci per dormire perché non c’era spazio. Il bagno era senza porta e rimaneva tutto lì”.
Dopo aver trascorso l’intera pandemia in una cella di prigione della sua città natale, Mansoura, Zaki viene trasferito nelle carceri di Tora, al Cairo, dove poco dopo ritroverà anche i legali che si stavano occupando della sua difesa. “Quando ho visto che hanno arrestato anche loro, perché avevano parlato del mio caso in un incontro con 13 diplomatici dell’Unione Europea, ho iniziato a perdere le speranze”.
Ma se abbiamo visto come la giustizia egiziana sia la “longa manus della dittatura – come la definisce la giornalista e relatrice Laura Cappon – e si accanisca contro chiunque si occupi di diritti umani, allora come mai il nostro Paese e l’Unione Europea sono così amici dell’Egitto? Come mai l’Egitto si può permettere di fare tutto questo senza subire mai conseguenze sul piano internazionale?”
“Nonostante mi ritenga fortunato ad aver avuto un Paese come l’Italia grazie al quale ho potuto essere qui oggi – afferma Zaki, ammettendo una certa quota di rischio nelle parole che sta per pronunciare – l’UE sta continuando a finanziare l’Egitto perché non vuole altri immigrati e rifugiati. Lo sta usando come blocco, e i soldi sono destinati all’allargamento delle carceri perché ci possano stare più persone. Se aprite il sito dell’Unione Europea, solo due anni fa condannavano tutto quello che adesso invece millantano come miglioramento”.
Attualmente sono circa 50mila i prigionieri di coscienza che si contano in Egitto, “a volte anche solo per aver postato qualcosa su Facebook”, racconta Zaki. E il sistema di detenzione preventiva è secondo Cappon “cruciale per capire cosa significa la repressione in Egitto”.
“E che fine ha fatto, la generazione di Piazza Tahrir?” chiede la reporter rievocando la rivoluzione del 2011, quella di quando fu rovesciato Mubarak e “il nostro Patrick aveva vent’anni e studiava farmacia – racconta – che nulla c’entrava coi diritti umani, eppure era lì, assieme a tutti quelli che volevano cambiare un intero sistema”.
“Alcuni di loro sono ancora in prigione – riferisce Zaki – altri sono stati esiliati e altri ancora rilasciati, come me. La maggior parte di questi ultimi ha scelto un profilo basso, perché il trauma del carcere ha sortito l’effetto voluto, ossia quello della paura nel voler provare ancora a scrivere, a pubblicare, a dire ciò che si pensa. Anche a me torna quel sapore amaro ogni volta che scrivo qualcosa. Ho scelto la strada più pericolosa, perché potrei essere arrestato ancora molto facilmente. Eppure, ciò che mi muove a continuare a parlarne, in qualche modo è più forte del trauma”.
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